Firenze, nella sede di Palazzo Strozzi, fino al 20 gennaio 2019 ospita la prima grande retrospettiva italiana dedicata a Marina Abramović, a cura di Arturo Galansino (catalogo Marsilio) che ripercorre tutta la vita dell’artista serba, dal titolo “The Cleaner”: «Come in una casa: tieni solo quello che ti serve e fai pulizia del passato, della memoria, del destino». Ciò che resta dopo questo repulisti esistenziale si trova in questa mostra allestita in tutti gli spazi espositivi di Palazzo Strozzi – piano nobile, Strozzina, cortile – e che con oltre cento opere abbraccia più di mezzo secolo di attività, dai primi anni Sessanta a oggi, della «nonna della Performance Art», come lei stessa ama definirsi.
Marina (1946) nasce nella Jugoslavia di Tito da una famiglia di eroi della seconda guerra mondiale, atei, convinti comunisti e sostenitori del regime, ma viene allevata da una nonna fervente cristiana ortodossa. Frequenta l’Accademia di belle arti di Belgrado dal 1965 al 1970 ed esordisce giovanissima come pittrice. Della sua prima produzione, praticamente sconosciuta al pubblico, sono esposti in mostra dipinti in cui sono ripetute scene di incidenti di camion e studi astratti di nuvole, e dove l’artista già sta cercando altri strumenti di comunicazione.
Tra il 1970 e il 1973 continua gli studi all’Accademia di belle arti di Zagabria cominciando ad usare il proprio corpo come mezzo artistico e, non appena scopre le potenzialità dell’arte performativa, abbandona ogni altra forma creativa. Momento di svolta è l’incontro con Joseph Beuys, nel 1973, e quelli con altri padri nobili della Performance Art come Chris Burden e Vito Acconci. Da qui nascono le prime, epocali performance degli anni Settanta, in cui Marina mette alla prova il proprio corpo, le sue capacità espressive e di resistenza, come la serie Rhythum (1973-1975), Lips of Thomas (1975) o la serie Freeing (1975).
Il 1975 è un anno prolifico, importante per Marina anche perché conosce l’artista tedesco Ulay (1943; vero nome Frank Uwe Laysiepen) cui la lega fino al 1988 un profondo rapporto sentimentale e professionale: una simbiosi artistica e personale che rappresenta un unicum nella storia della Performance Art. Da questo sodalizio nascono pietre miliari dell’arte performativa in cui il tempo viene scandito da ritmi prodotti dai loro corpi a contatto, da respiri, colpi, urla, scontri. Nel cortile di Palazzo Strozzi è anche esposto il furgone Citroën, un ex cellulare della polizia, in cui i due artisti hanno vissuto tre anni, viaggiando incessantemente per l’Europa: un moto perpetuo che ben si accorda con il loro manifesto Art Vital.
Negli anni Ottanta Marina e Ulay intraprendono lunghi viaggi di scoperta antropologica alla ricerca di una spiritualità che diventa sempre più elemento imprescindibile della loro arte. Studiano le pratiche di meditazione durante i soggiorni in Australia, in India e Tailandia, inseguendo culture indigene «un rapporto diverso tra corpo ed energia mentale». I due performer, allenandosi nel deserto australiano, sviluppano così la capacità di rimanere immobili per giorni, come faranno poi nella serie Nightsea Crossing (1982-1986) e Nightsea Crossing Conjunction (1983), in cui vengono messe in contatto le culture aborigena e tibetana. Sempre più la coppia cerca di dilatare gli orizzonti e gli elementi temporali della propria opera. Dopo il logoramento del rapporto, il loro addio si celebra con la performance The Lovers (1988), svoltasi sulla Grande muraglia cinese. Marina parte dall’estremità orientale, mentre Ulay da quella occidentale. Secondo una leggenda, sotto la muraglia si nascondono draghi giganti e chi ci cammina sopra assorbe la loro energia attraverso le piante dei piedi. Da questa esperienza, seguendo la forza magnetica della terra, Marina comincia a riflettere sulla forza energetica racchiusa nelle pietre e nei minerali, che si ritrovano nella serie di Transitory Object degli anni Novanta-Duemila. L’incontro con l’ormai ex compagno, avvenuto dopo aver percorso ciascuno duemilacinquecento chilometri, pone fine anche alla loro collaborazione artistica.
Dopo la separazione, Marina è in grado di ricominciare e di reinventarsi. Segnata profondamente dal dramma della guerra in Bosnia, che coinvolge anche la sua famiglia, viene invitata a rappresentare ufficialmente la Serbia e il Montenegro alla Biennale veneziana del 1997, per poi esserne improvvisamente esclusa. Non si dà per vinta e, invitata dal curatore della Biennale di quell’anno, Germano Celant, a esporre nel Padiglione Centrale ai Giardini, allestisce la sconvolgente performance Balkan Baroque in un cavernoso sottoscala. Come gesto di denuncia e purificazione degli orrori della guerra nei Balcani, accovacciata su una catasta di ossa di bovino, l’artista puliva le carcasse dal sangue e dalle cartilagini cantando canzoni del repertorio folkloristico della ex Jugoslavia. L’impatto visivo dell’opera, con Marina tutta ricoperta di sangue, era scioccante e veniva aumentato dal puzzo delle carni in putrefazione in quello scantinato. Questa ritualità sacrificale, metafora della sanguinosa guerra fratricida che stava distruggendo il suo paese natale, diventava un inno contro tutte le guerre e le faceva vincere il Leone d’oro.
La vittoria alla Biennale è solo un episodio tra i tanti che costituiscono il rapporto speciale di Marina con l’Italia sin dagli anni Settanta. Dalle prime, ormai mitiche performance come Rhythm 10 (1973) e Rhythm 4 (1974), realizzati rispettivamente a Roma e Milano, e il fondamentale Rhythm 0 (1975), a Napoli (dove Marina lascia che il suo corpo, in balia del pubblico, diventi oggetto di piacere o di dolore), a quelle con Ulay, come Relation in Space (1976) a Bologna, e l’iconico Imponderabilia (1977) – in cui i loro corpi nudi diventano cariatidi di una porta vivente attraverso cui il pubblico deve passare –, fino alle più recenti serie Stromboli (2002) e Bak to Simplicity (2010). Inoltre, non è la prima volta che i passi di Marina incrociano Firenze: nel 1985 l’artista lavorò a Villa romana, ancora insieme a Ulay, alla piéce Fragilissimo. Sempre in Toscana poi, ma già da sola, Marina esegue la Performance Mambo a Mariembad all’ interno dell’ex ospedale psichiatrico di Volterra (2001).
L’arte di Marina è effimera, basata su una durata temporale che si è dilatata con gli anni: dalle poche ore delle performance degli anni Settanta ai dodici giorni di The House with the Ocean View (2002), fino ai tre mesi di The Artist is Present (2010) al MoMA, durante i quali è rimasta per 736 ore e 30 minuti muta e immobile, senza mangiare, bere o andare alla toilette, fissando visitatori con gli occhi pieni di dolore. Questa comunicazione di energia spirituale ed emotiva tra artista e pubblico è diventata sempre di più elemento fondamentale dei suoi lavori.
Maria Paola Forlani