Dove mi stanno portando? Mi ritrovo in uno stanzone inondato di luce lattiginosa, dalla barella mi scaricano su un lettino all'angolo e se ne vanno senza una parola. Sono in due, grandi e grossi e sudati, che ridendo si danno pacche sulle spalle. Subito mi rotolo fuori e cerco d’inseguirli ma mi perdo fra il dedalo di letti.
Qui c'è stata una strage. E i sopravvissuti stanno dando l’anima.
Chi urla e chi piange, chi geme e chi implora, chi ride e chi stride.
Fossi arrivata all'inferno? O in un lebbrosario?
Perché mi trovo qui? Quale legge lo dice?
Devo scappare. Dove sono le scarpe. Il pavimento è un porcile. Questi sono escrementi umani. Tanta indecenza se non la vedi non te la puoi immaginare. E questo sarebbe un luogo di cura? Per che genere di patologie?
Non ritrovo le scarpe, di solito le mettono ai piedi del letto, dove si trova il mio letto?
Una donna nera, statuaria – che bellissima gente, gli africani! – con un panno arrotolato in testa e solo uno slip nero si agita nel letto e morde ridacchiando un pizzo del lenzuolo che è finito attorcigliato a terra. Un'altra donna – bianca come cera – completamente nuda e raggomitolata sul letto si spreme con le mani le mammelle striminzite e con un sorriso sghembo mi offre il latte che non ha. E insiste pure. Un'altra, giovanissima, quasi una bambina, si sventaglia con la camicia da notte le parti intime mostrando la lingua e facendo cucù. Una ragazza con le gambe divaricate penzoloni fuori dal letto e le mani legate alla spalliera si contorce ululando, mi avvicino per liberarla ma lei mi sputa in faccia. Altre donne – ma sono poi donne? hanno ancora tratti umani? – si trascinano schiumando lungo i muri e sotto i letti, come invertebrati.
Continuo a guardarmi intorno fino a che non reggo più lo spettacolo, che è allucinante. CHE CI FACCIO IO IN QUESTO POSTO?
La donna nera allunga una gamba mentre le passo accanto, diretta a uno dei finestroni, e cado faccia a terra restando incastrata nello spazio esiguo fra i letti. C’è chi mi strofina i piedi addosso e chi mi sbava sul collo. Vincendo il ribrezzo arrivo carponi fino al finestrone e aggrappandomi al davanzale sbircio fuori. Siamo forse al primo piano, da qui si potrebbe uscire. Ma il finestrone è chiuso e la maniglia si trova in alto, dove non posso arrivare, fissata per giunta con uno straccio più volte annodato. I vetri sono così sporchi che sembrano affumicati. Mi occorre una sedia, devo provare ad arrivare alla maniglia. Ma qui dentro non ci sono sedie. Eppure una via d’uscita ci dev’essere e la troverò, e una volta fuori vado a denunciare questo obbrobrio, scateno uno scandalo mondiale.
La porta è solo accostata. Esco e mi dirigo verso quella che sembra l'uscita, e mi trovo invece in un altro stanzone, orribile quanto quello da cui provengo. Qui ci sono soltanto uomini o qualcosa di simile, osceni e pietosi nella loro nudità e sporcizia.
Perdo ogni orientamento. Non so da che parte andare, e se andare.
Devo parlare con qualcuno. HO IL DIRITTO DI PARLARE CON QUALCUNO. Chi può dirmi con chi posso parlare?
– Torna nella tua camerata, che ci fai in quella degli uomini? – Una donna in casacca e pantaloni di colore incerto, scarmigliata e robusta, mi ricaccia indietro fin sulla porta dello stanzone delle donne, ma io aggrappata agli stipiti oppongo tutta la mia resistenza. Sento di avere una gran forza. Con uno strattone mi libero di lei e metto le ali ai piedi.
Corro e corro, ma non trovo vie d'uscita. Finché vado a sbattere contro una porta e la spalanco senza bussare.
Dentro c'è una in camice bianco seduta a una scrivania, che al mio precipitoso ingresso continua a scrivere senza nemmeno alzare gli occhi.
– Mi aiuti, – la imploro, e lei pacatamente risponde:
– Ma certo, sono qui per questo. Aspetta il tuo turno. Fuori, sulla panca.
Sulla panca mi raggiunge il donnone che tenta di agguantarmi, ma sfuggo alla presa e urlando piombo di nuovo nella stanza di quella che deve essere una dottoressa. Che ora ha smesso di scrivere e sta telefonando. E dice che di questa vita non ne può più, che se non va in ferie schiatta, che se non cambia reparto va a finire che ammazza qualcuno. E ridacchia alle sue battute con l'altra persona al capo del filo. Senza curarsi affatto di me, della mia presenza.
Riattacca e si accende una sigaretta. Mi guarda pensosa e tace. E il donnone sempre alle mie spalle che aspetta ordini, ed io che mi tengo aggrappata alla scrivania come un naufrago all’ultimo rottame.
– Beh, che c'è? – chiede la dottoressa in tono blando. Ed io subito le chiedo di dirmi per favore dove mi trovo e perché.
– Ti trovi nel posto giusto, al momento giusto e con le persone giuste, – lei risponde.
– Perché? – grido. MA PERCHÉ GRIDO?
– Questo dovrai spiegarcelo tu. Magari domani. – Controlla l’ora e si alza. – Adesso fa la brava e torna al tuo posto, e vedi di non creare altri problemi che ne abbiamo già fino al collo, – e fa cenno al donnone di farmi sloggiare.
– Non è così che ci si comporta. Lei è un medico! – le ricordo, – ed è responsabile di ciò che accade nel suo reparto. Ma forse lei non è informata di quanto accade nel suo reparto...
– È probabile – lei risponde senza scomporsi, – ma posso immaginarlo...
– Lei non lo immagina affatto, sennò non se ne starebbe qui con le mani in mano! – ribatto sempre più alterata. – Si faccia un giro e controlli di persona in che situazione versa questa specie di… di… qualcosa che la farà inorridire!
La dottoressa mi guarda assente, sorridendo. Forse anche il boia sorride mentre si appresta a mettere il cappio. Prende la borsa e sfiorandomi con malagrazia esce dalla stanza.
Sono allibita, svuotata. Ne approfitta il donnone per strapparmi alla presa e trascinarmi lungo il corridoio, adesso fievolmente illuminato dalle lampade al neon.
– Mi lasci! – le dico.
– Magari potessi, – lei mi risponde.
– Dove mi porta?
– Indovinala grillo. Senti bella, non mi rendere la vita ancora più amara. Hai idea di quanti siete voi e quanti pochi siamo noi? Turni da capestro. Ma è così che funziona: prendere o lasciare. Dove lo trovo alla mia età un altro lavoro?
Nello stanzone delle donne nulla è cambiato, tranne la luce. Che ora viene giù sparata dal soffitto. E il puzzo che si è fatto ancora più acre e ributtante. Chi può credere che esiste un posto simile? Nella città CAPUT MUNDI, NELL’ANNO DEL SIGNORE 1986?
In quante siamo, ammassate qua dentro? Una due tre quattro... dieci... dodici ... e perdo il conto. Mi unisco al lamento generale cercando nel mal comune una consolazione che non arriva.
Giro per la stanza contando i passi, facendomi largo tra i cespugli di mani e piedi che escono dal pavimento e dai muri, fra una nuvolaglia di mosche, polvere, e… ODIO. Odio allo stato puro.
Devo guardare a dove mettere i piedi, nel viscidume ammorbante che dilaga attorno e sotto i letti. Non posso credere a quello che vedo, ma non posso nemmeno dubitarne, perché sto camminando in mezzo agli scarafaggi e uno ne schiaccio col piede nudo e lo schifo mi sommerge.
Mi trovo nel letto senza sapere come ci sono arrivata. È il mio di sicuro perché sopra qualcuno ci ha messo le mie scarpe. S’è abbassata la luce e sono calati i rumori. Chissà che ore sono.
Nessuno è entrato o uscito, o non me ne sono accorta. Forse siamo state dimenticate. Mi alzo ed esco nel corridoio senza fine. Si aggirano nella luce incerta spettri che come me vagano alla ricerca dell'identità perduta, fra sospiri e gemiti e spropositi cincischiati fra i denti.
Arrivano due infermieri col carrello dei medicinali, raggruppano tutti gli uomini che si trovano nel corridoio e li spingono nello stanzone. Non fanno caso a me, appiattita in un angolo. Piano piano cala la quiete.
Non voglio essere messa a dormire in questo modo. Fra poco arriveranno col loro carrello allo stanzone delle donne: CHE DEVO FARE?
Sguscio via senza sapere dove ritrovandomi fatalmente sempre allo stesso posto, un circuito infernale che riproduce esattamente l’incongrua mia esistenza regolata da non so quale pazzo congegno, da quale vendicativa volontà, io criceto piantato su una ruota infilata in una gabbia, perennemente in affanno per uscire dal gioco perverso della reiterazione di errori sempre riconosciuti tali e mai SMANTELLATI, aggrovigliati come serpi, irti come palafitte incassate nei millenni, errori miei e altrui, confusi e inscindibili, dove finisce la sottomissione e subentra la complicità, quali sono le colpe di ognuno nel marciume di rapporti ripiegati come sudari, quali sono LE MIE COLPE, da chi mi devo proteggere se non da me, come spezzare la catena di errori che si sommano e si sommano e si fondono e si fondono e si ereditano e si tramandano in quella ruota della tortura che non distingue colpevoli e innocenti, e…
Non posso credere ai miei occhi: lungo un corridoio deserto, su un mobiletto di ferro, c’è UNA ROSA CHE SEMBRA NERA alla luce incerta. Come quella che fiorì sul balcone di casa mia, un secolo fa. Forse questa è una ROSA FINTA. Come potrebbe vivere un fiore in questo lurido inferno?
La rosa si trova in una bottiglia di vetro verde. L’ho appena presa in mano per osservare da vicino la sua natura, quando due infermieri arrivano correndo e mi saltano addosso e nella zuffa la bottiglia va a sbattere contro il mobiletto di ferro e va in frantumi.
La rosa era vera, si è tutta spampanata cadendo.
In mano mi è rimasto il collo della bottiglia, e non so che farne.
Una lotta silenziosa si svolge attorno a me, ma non mi riguarda. Trascinano quella che sono io nello stanzone e la spingono sul letto mentre essa urla con tutto il fiato che ha in corpo. La stanno schiacciando, premendo e immobilizzando.
Poverina, ma io che ci posso fare?
Le fanno un’endovena che va subito in circolo, e quella che ero io torna a essere me. Galleggio in una nebbia azzurrina fra tempeste e schiarite. Voci ovattate parlano di una pazza pericolosa e non so di chi stiano parlando.
– Che aspettiamo, – dice uno, – leghiamola e buonanotte ai suonatori. Io ragazzi sono esaurito.
– Com’è arrivata qua, chi ce l'ha mandata? – chiede un altro.
– Al solito, a scaricabarile.
– E senza documenti. Luogo di grande accoglienza, questo. C'è posto per tutti, e noi qui a ribattere i pezzi. Avanti così e finiamo tutti in manicomio.
– Ma se i manicomi sono chiusi!
– Infatti si vede. Allora, ci diamo una mossa? ARRIVA 'STA CAMICIA?
–––––––––––––––––––––
Si avvicina Natale. Mi sono quasi del tutto ripresa dalla brutta avventura.
Ne posso anche parlare.
Restai per tutta la settimana di ferragosto legata al letto con la camicia di contenzione. Poi venne qualcuno della famiglia che mi prese e mi portò in una clinica privata, costosissima, dove rimasi per una diecina di giorni. Fu per me una vacanza. Ascoltavo musica, giocavo a bocce, mangiavo regolarmente e dormivo abbastanza bene, certo con l’aiuto dei farmaci somministrati sempre negli stessi orari; partecipavo a una sorta di mariapoli condotta da un giovane analista in cui ognuno poteva prendere la parola o semplicemente ascoltare, o anche allontanarsi se preferiva, ed io lo preferivo, ma raccoglievo volentieri confidenze private degli altri pazienti – o ospiti – soprattutto al calare del sole.
Fui dimessa senza ricette, con il consiglio di rivolgermi a qualche esperto del campo, loro potevano indirizzarmi nel caso, anche per via della parcella piuttosto onerosa. Grazie, terrò presente.
Poi chiesi la mia cartella clinica. E mi dissero che al momento non era pronta.
Ah beh, tornerò.
Quando tornai dopo qualche giorno, la cartella non era ancora pronta.
Ah bene non importa, attendo qui finché non è pronta. E sedetti sulla panca fuori dall’ufficio del direttore della clinica, psichiatra di chiara fama, sfogliando riviste e sgranocchiando biscotti.
La cartella clinica mi fu consegnata. Alcuni fogli quasi in bianco, spillati, che oltre a date e nome riportava la seguente diagnosi: STATO ANSIOSO CON SPUNTI INTERPRETATIVI.
Che vuol dire? chiesi alla segretaria, giacché non c’era nessuno del personale sanitario, compreso il direttore.
– Io non so niente, io non c’entro! – rispose la giovane impiegata cercando di chiudermi la porta in faccia, e questa sua reazione mi allarmò parecchio, tanto che cominciai a insistere per parlare con qualcuno dei responsabili, e solo allora mi resi conto che la clinica era vuota, senza medici né pazienti.
La clinica, una bella villa recintata da un muraglione e con un cancello imponente telecomandato, chiuse di punto in bianco i battenti, dopo che un giovane degente ne uscì fuori uso, in seguito a ripetuti ELETTROSHOCK.
Sissignori, in quella bella clinica si praticavano ancora tali barbarie. Pagate salatissime oltre la retta. La famiglia del ragazzo, dissanguata, aveva sporto denuncia e con la chiusura tutti erano spariti dalla circolazione. Non so il seguito della brutta faccenda e se qualcuno abbia pagato per i danni arrecati.
Della settimana passata al CIM di uno dei maggiori ospedali di Roma non ricordo nulla. Solo il sapore insipido e gessoso di una polpetta che qualcuno mi spingeva a forza nella bocca e che io risputavo. E vagamente il viso afflitto di un giovane infermiere che mentre armeggiava con i legacci mi diceva di non pensarci e che tutto sarebbe presto finito.
Il mio medico di base, che è anche amico di famiglia, mi ha spiegato che ho sofferto di allucinazioni auditive e visive, di delirio di persecuzione e sdoppiamento della personalità.
– Sono schizofrenica? – gli ho chiesto.
– Non più di me – mi ha risposto. – Sali sulla bilancia.
Quarantadue chilogrammi vestita.
– Chiaro? – mi ha detto il medico amico, piuttosto arrabbiato. – Se fossi venuta subito da me ti avrei ordinato di mangiare e di bere e ti avrei messo a nanna per tre giorni. Poi ti avrei liquidata con un buon ricostituente e la raccomandazione di cambiare aria e frequentazioni. Cerca di non ridurti più in questo stato… e di non farti imbrogliare dai sentimenti. Per quello che hai passato non c’è risarcimento, lascia correre; cerca tu di farne tesoro.
Tante cose ho sistemato e altre ne sto sistemando.
Ho ritirato i miei documenti finiti al Commissariato ed ho rinnovato la patente di guida prima ancora che scadesse.
Ho riconsegnato a mia nonna le sue chiavi e ho cambiato residenza. Senza fare le doppie chiavi. Non trovo più polverine nascoste nei termosifoni o infilate nella rete del letto.
Ogni tanto vado a trovare mia madre e la porto a fare una passeggiata in mezzo ai campi.
In attesa del divorzio, mi ritengo già una donna libera.
Ho chiuso la storia con Siro una domenica mattina di ottobre. O almeno lo spero.
Ah, una rosa sta fiorendo in pieno inverno nel giardino della mia nuova casa: rossa e spinosa e profumata.
Maria Lanciotti
Fine
Come eravamo innamorati, noi,
laggiù nei manicomi
quando speravamo un giorno
di tornare a fiorire
ma la cosa più inaudita, credi,
è stato quando abbiamo scoperto
che non eravamo mai stati malati.
(Alda Merini)