Maria Lanciotti. La rosa nera e la rossa rossa, una storia follemente umana – 3 Dopo la chiusura dei manicomi (legge Basaglia – 13 maggio 1978, n. 180)
(foto di Roberto Cano')
17 Novembre 2018
Quando qualcuno è folle ed entra in un manicomio, smette di essere folle per trasformarsi in malato. Diventa razionale in quanto malato. Il problema è come sciogliere questo nodo, superare la follia istituzionale e riconoscere la follia là dove essa ha origine, come dire, nella vita. (Franco Basaglia, da Conferenze brasiliane, 1979)
Sono sola con i miei assassini. Il pompiere di cui mi fidavo – Alvaro! – mi ha consegnato a loro, dopo che ha permesso alla donna con l’acciaio in bocca di tramortirmi con un’endovena al braccio.
Mi spareranno. Dove mi stanno portando per assassinarmi? Forse in aperta campagna, dove poi mi seppelliranno.
Sono in due, vestiti di bianco, ed io sono seduta in mezzo a loro col capo ciondoloni. Parlano come se io non ci fossi.
– Che dici, mettiamo la sirena? – chiede uno.
– Ma no, a che serve svegliare la gente! La vedi, no? è tranquilla e ci resterà per un pezzo. Quella della guardia medica la conosco, ci va pesante, – risponde l’altro.
Infatti mi ha sistemato, la donna bionica che si spaccia per medico. E adesso mi stanno portando al macello. E io che mi fidavo dei pompieri.
– Mi sparerete? Meglio un colpo d'arma da fuoco che il coltello, ma per favore mirate giusto – e per spiccicare queste poche parole mi tocca urlare.
– Stai buona, ti portiamo in un bel posticino, tutto bianco e fresco, dove c’è gente che deve riposare, che ha bisogno di quiete, e anche tu ne hai bisogno. Se te ne stai buona sarete tutti in pace. – La voce è dolce come un cimitero a novembre.
Certo, mi stanno portando in un cimitero. Il luogo di quiete di cui stanno parlando. Avranno già pronta la fossa. Speriamo che non mi seppelliscano viva.
– Sparatemi al cuore e datemi il colpo di grazia. Per pietà, – dico sempre urlando, perché solo così riesco ad articolare parola.
Loro guardano avanti impassibili ed io insisto:
– Qua, ora, e scaricatemi nella cunetta. Perché dovete per forza seppellirmi viva?
I due restano zitti e muti come tombe. A un tratto entro in una zona di completa indifferenza, nevica dentro la mia testa e tutto sparisce.
Mi trovo su un lettino in una stanza bianca di fronte a un finestrone spalancato. Non posso tenere gli occhi aperti per via della luce abbacinante. Mi sento riposata, serena.
Due uomini seduti a una scrivania parlano di sindacati, buste-paga, braccio di ferro, pensione anticipata, e si accalorano nella discussione. Poi uno di essi accennando a me, senza guardare dalla mia parte, dice: – Poveraccia. Agosto è un mese maledetto, troppa gente va in tilt, chissà perché?
– Sarà la solitudine – dice l'altro, – tutti se ne vanno in vacanza e chi resta solo in città perde l’orientamento.
– Eh sì, da soli s’impazzisce o si muore. Vale per tutto l'anno, ma la settimana di ferragosto è il culmine.
– E noi qui con i potenti mezzi messi a disposizione dall’incommensurabile Asl a fare quel che si può.
– Poco e niente, mica possiamo fare miracoli.
Riprendono l’argomento iniziale e si lamentano di tutto.
Il tempo passa e niente succede. Adesso me ne vado. Provo a sollevarmi ma la stanza comincia a girare ed io ricado giù, su quella che dev’essere una barella.
Calma, ora ci riprovo. Stavolta va meglio. Quei due hanno smesso di parlare e senza darlo a vedere seguono ogni mia mossa. Chissà se fanno anche loro parte del COMPLOTTO. Sembrano NORMALI, ma ormai non mi fido più di nessuno e nemmeno delle mie impressioni.
Arriva un’auto sgommando e i freni stridono sotto il finestrone. E sento odore di bruciaticcio.
Devo scappare. Prima però mi serve il bagno. Quei due, come niente fosse, si affacciano e parlano con quelli di sotto. Forse si stanno accordando su come agire per prelevarmi… TRAFUGARMI?
Devo sbrigarmi. Vado a cercare un bagno e poi una via d'uscita.
Tenendomi accostata alle pareti scivolo via dalla stanza e arrivo a un bagno. Per disabili. La porta è aperta e senza chiave. Non c’è finestra, solo un piccolo lucernario in alto. Da qui non si scappa.
Il bagno è lurido. Nel bel mezzo c'è un secchio pieno di qualcosa d’innominabile che manda un puzzo atroce. Perché lasciano in giro questo schifo? Cerco di non guardare da quella parte e di non pensarci e faccio quello che devo fare.
Mi vedo di sfuggita in uno specchio scrostato e non mi riconosco: faccia sformata e pelle flaccida, pupille dilatate e la bocca molle semiaperta. Forse mi hanno torturato mentre ero priva di conoscenza, o mi hanno usata per qualche esperimento di tipo genetico o chissà che altro ancora. Perché si accaniscono tanto contro di me?
Devo giocare d'astuzia, trovare il modo di filarmela.
Vedo una doppia porta accostata, la imbocco e mi trovo in un lungo corridoio – perché questa luce VIOLA? – lo percorro fino in fondo e mi ritrovo davanti a un'altra porta socchiusa – perché tutto questo silenzio? – e sto per entrarvi quando qualcuno mi prende per le spalle e dice con voce flautata:
– Hai sbagliato direzione, cara, vieni che ti riporto nel tuo lettino, – ma riesco a divincolarmi e infilo la prima uscita che mi si para davanti.
È uno spettacolo allucinante. Qui dentro è pieno di morti avvolti in lenzuoli bianchi e mandano un fetore insopportabile. In fondo alla stanza c'è una finestra e corro a spalancarla perché può essere la via di fuga, ma quello di prima – anzi quella, è una donna – mi sta di nuovo addosso e stavolta mi afferra saldamente e mi risospinge indietro, mentre dice con quella sua voce mielata:
– Non disturbare i pazienti, a quest'ora dormono come angioletti. Torna a letto anche tu, fra poco passano la colazione.
Rientro nella stanza. Quei due stanno ancora parlando di sindacati, lavoro nero e ingiustizie sociali – ma a chi vogliono darla a bere! – poi uno prende carta e penna e si mette a scrivere. Certo, deve fare il suo rapporto e dirà che ho cercato di scappare, ma a loro non la si fa. E piripì piripà.
Striscio fino al lettino come un cagnolino bastonato, mi stendo e fingo di chiudere gli occhi ma in realtà SORVEGLIO quei due.
GUERRA PSICOLOGICA, si chiama.
La mia borsa è appesa alla sedia, chissà se mi hanno lasciato i documenti. Ne dubito. Dovrò prenderla al volo al momento propizio.
Dev’esserci un inseguimento in atto, si rincorrono le sirene, forse stanno circondando l'edificio. Chi, i buoni o i cattivi? Speriamo che arrivino i nostri, come al cinema. Invece non arriva nessuno. Anche quei due chiacchierando del più e del meno lasciano la stanza, e anche le sirene si sono acquietate.
È il momento buono per filarmela.
Prendo la borsa, mi dirigo al bagno e da lì prendo la direzione opposta a quella di prima, sbagliata.
Attraverso un lungo corridoio su cui si aprono tante porte, un inserviente sta passando lo straccio e mi dice di aspettare che è bagnato, ma non gli do retta e proseguo verso l’uscita, ne sono certa perché da lì viene la luce del giorno. Vi arrivo trafelata e mi sento perduta perché la vetrata è chiusa, ma vedo il pulsante sotto il citofono, premo, uno scatto, giro la maniglia e sono fuori. L'aria frizzante m’investe, carica di energia.
Faccio il giro dell’edificio cercando un buco per uscire evitando l’ingresso principale, ma non lo trovo e allora scavalco il basso reticolato e sono in una via traversa. Vado a passo spedito, ma senza correre per non farmi notare.
Passo davanti a un bar e mi attira l’odore del caffè.
Entro, ordino cappuccino e brioche e chiedo del bagno. Si trova nel seminterrato. Vorrei darmi una rassettata, anche per non dare troppo nell'occhio conciata come sono, magari quelli del bar stanno già telefonando ai carabinieri, minimo penseranno che sia drogata. E se pure fosse? – penso – l'Arma Benemerita potrebbe essere la soluzione.
Mi lavo faccia e ascelle, una lisciata ai capelli e risalgo.
Sopra è tutto tranquillo. Mando giù il cappuccino, ma non riesco a mangiare. Poco male. Provo a dire qualcosa, come si fa di solito al bar la mattina, ma la voce mi esce strascicata come fossi ubriaca. Nessuno fa conto di avermi sentito, nemmeno il barista. È chiaro che mi hanno già ETICHETTATA ma si fanno gli affari loro. Di drogati è pieno il mondo. Non sto certo lì a spiegare il mio lungo dramma, fiato sprecato. E comunque non lascio la mancia.
Conosco il paese, dista dal mio solo pochi chilometri e vanta un ospedale fra i più attrezzati del territorio. Laggiù c’è la fermata dell’autobus e uno ne sta partendo. Dovrò aspettare il prossimo. Minuti da macinare a fatica ma resisto. Quando arriva, dopo una mezz’oretta, salgo dalla parte sbagliata, ma è quasi vuoto e non faccio fatica a portarmi avanti. Siedo accanto a una ragazza che al mio saluto risponde con un sorriso. Appena l’auto riparte sprofondo nel sonno e ritrovo gli ATTIMI CHE CONTANO.
Il pareo turchese e blu con i pesci che guizzano fra i rami di corallo, la lunga attesa che sembrava finalmente terminata, la pelle tiepida e vibrante di lui, il treno che riparte carico del mio sconforto e della mia incrollabile speranza.
– Signora, sta male?
La ragazza mi sta scuotendo. Le sono scivolata addosso e mi ritrovo con la faccia contro il suo petto. Sono confusa, non riesco a mettere a fuoco la situazione. Che si è capovolta riportandomi in zona oscura.
Stavo pensando – mentre credevo di dormire – che per Siro io potrei anche morire mille volte e lui per me non muoverebbe un dito. Un dolore lancinante alla testa e al basso ventre mi parlano di lui e dei suoi artigli taglienti, e della mia CECITÀ SENZA PIÙ SCUSE.
La ragazza sta dicendo al conducente di fermare che una persona sta male, e quello risponde che tanto siamo quasi arrivati al Pronto Soccorso, quello del mio paese.
Non ci voglio andare. Vorrei ribellarmi ma le forze mi stanno abbandonando.
La ragazza mi prende una mano e la stringe. E poi dicono che i giovani sono indifferenti. Poi ricordo che anch’io sono stata giovane, per l’anagrafe ancora lo sono ma i miei quasi trent’anni pesano come un secolo. Un secolo buio. La ragazza mi tira a sé ed io respiro il suo odore, mi spiace che lei debba sopportare il mio. Poi improvvisa cala una tenda nera, che mi soffoca e annulla.
– Sveglia, torna a noi.
Sono di nuovo al Pronto Soccorso. Alcuni uomini in camice mi stanno osservando, mai visti nelle volte precedenti. Si saranno dati il cambio. Ormai è la terza volta che arrivo e mi chiedono ancora i documenti. Vuol dire che non li hanno trovati nella borsa e che me li hanno presi all’ospedale da cui sono scappata.
Entrano altre persone e tutti mi circondano. Ricomincia il terzo grado. Sono fermamente decisa a non collaborare.
S’incrociano domande cui non intendo rispondere. Come ti chiami? dove abiti? sei sposata? quanti anni hai? dove sono i tuoi familiari? E io zitta. Non fornisco indizi nemmeno sotto tortura. Sennò mi ritrovo qui nonna e – come dire? – l’ancora mio marito. Mia madre no, lei non è mai presente nei momenti cruciali. Perché io non le ho mai chiesto aiuto. Ma se glielo avessi chiesto, me l'avrebbe dato? E che genere di aiuto mi avrebbe dato?
Perché non ho mai voluto mettere alla prova i suoi sentimenti per me? E i miei sentimenti per lei?
Hanno tutti esaurito domande e pazienza. Suonano le campane del mezzodì alla chiesa in piazza.
– Eh cavolo, te la sei voluta! – Un laccio mi stringe il braccio, un ago punge e vado nel niente.
Quando riapro gli occhi sono sola nella stanza. Mi sento abbastanza bene. La porta è aperta ed è inutile dire che la imbocco di corsa.
E finisco tra le braccia dei miei GUARDIANI. Che si passano la palla.
– Qui bisogna provvedere e di corsa. Chiama l’ambulanza.
Non ero mai entrata in un’ambulanza dalla parte di dietro. Sembra il ripostiglio di uno sfasciacarrozze intriso di olio bruciato.
Mi avvolgono in una coperta di lana che puzza da levare il fiato e mi legano con le cinghie come un salame.
Seduta di fronte c'è una grassona che mi guarda senza vedermi.
Mi rivolgo a lei come alla Madonna.
Liberami madre santissima da questa coperta urticante che mi sta legata addosso. Dammi una botta in testa e mettimi fuori uso, e così sia.
Una coperta di lana in piena estate dentro l’ambulanza infuocata è il massimo della cattiveria.
Dopo aver pregato e imprecato altro non posso fare che piangere. La grassona distoglie lo sguardo come se finalmente mi vedesse.
Dio, come può essere crudele la vita.
Dove mi stanno portando? Perché così lontano? Vedo passare da uno spiraglio in alto pali palazzi balconi alberi cartelli palazzi pali antenne parabole palazzi campanili bandiere insegne. Poi ecco la Croce Rossa e il Pronto Soccorso. Un altro ospedale, ma questo è grande come una città dentro la città.
TELLUSfolio - Supplemento telematico quotidiano di Tellus
Dir. responsabile Enea Sansi - Reg. Trib. Sondrio n. 208 del 21/12/1989 - R.O.C. N. 7205 I. 5510 - ISSN 1124-1276