Il mondo – così come il cinema stereoscopico che lo rispecchia – non si presenta più in bianco e nero ma come una girandola abbagliante in cui il bene e il male vorticano abbracciati in un fantasmagorico balletto.
Eppure il mondo è sempre lo stesso, anche se immensamente più sfiancato: siamo noi ad essere cambiati. E comunque, nulla di nuovo sotto il sole, solo che adesso tutto ha un nome, anche i mali che non si sapeva fossero tali.
Si parla di bullismo come di una nuova piaga sociale in espansione, che a detta degli esperti non risparmia nemmeno i bambini dell’asilo. Ma di bullismo già ne trattava De Amicis nel suo controverso Cuore, mettendo a confronto opposti comportamenti: Garrone il primo della classe e Franti il cattivo soggetto, Garrone l'orgoglio del padre e Franti la disperazione della madre.
Il rimprovero di spezzare il cuore ai genitori era riservato un tempo a tutti i figli. “Mi farai morire di crepacuore” erano le parole lancinanti con cui le madri richiamavano all’ordine i discolacci, mentre “Attento a te che ti spezzo le ossa” era la minaccia dei padri, che raramente passavano ai fatti ma senza rottura di ossa.
Cuore è un vago ricordo dell’età scolare che non suscita simpatia, ma rappresenta ancora oggi il modello morale e pedagogico che tanto incise nella conduzione didattica e nella formazione di tante generazioni.
Quando frequentavo la scuola secondaria, intorno alla metà degli anni ’50, vissi alcune esperienze alquanto indicative sulla diversa disposizione e metro di giudizio di alcuni insegnanti.
Attraversavo un momento personale e familiare molto difficile, e covavo dolore e incertezza in forma di grande insofferenza verso tutti e tutto. Allora quando c’era un guaio grosso ognuno lo affrontava come poteva, in silenzio e in solitudine come ci era stato insegnato dalla riservatezza dei grandi: da bravi ometti e da piccole donne.
Non sto qui a farla lunga, ma ripensare a quel periodo mi riporta ai marasmi di un’età ingrata come l’adolescenza, piena di mutamenti incomprensibili e di paure velate che dettano spesso atteggiamenti sbagliati di difesa.
Un giorno il professore di matematica – piacente e inappuntabile – mi chiamò per l’interrogazione. La mia testa era un guscio vuoto. Uscii dall’ultimo banco con aria svogliata e continuando a masticare la gomma, che in classe era vietata, arrivai alla cattedra e rimasi impalata ad aspettare il seguito. Il professore mi guardava senza battere ciglio ed io non abbassavo lo sguardo, accettando apertamente quella sfida che stuzzicava la mia repressa combattività.
Il professore non m’interrogò, non mi fece domande. Restammo così, studiandoci con reciproca cattiveria, poi mi disse: “Vuoi spezzare il cuore a tua madre?”. A queste parole, tanto più terribili perché sapevo quanto il cuore di mia madre stesse già in sofferenza, per una strana reazione che io stessa non compresi sfoderai un sorrisino che ghiacciò il professore, il quale con una collera che rendeva la sua faccia di gesso salì in cattedra e additandomi a tutta la classe disse:
“Ecco un tipico esempio di delinquenza minorile: prendete nota”, e scarabocchiò qualcosa sul registro, mentre mi faceva cenno di togliermi dalla sua vista.
Nello stesso periodo, nella medesima situazione di disagio che stavo vivendo, capitò un altro episodio che mi fece riconsiderare comportamenti miei e altrui sotto diversa luce.
La nostra professoressa di francese, supplente temporanea al primo insegnamento, giovane e timida e con i foruncoli, era eccezionalmente preparata e paziente. Nel fare lezione era come se si rivolgesse a ognuno di noi, chiedendo alla fine se in qualche punto non fosse stata chiara. E per interrogarci veniva tra i banchi, aiutandoci con lo sguardo e discreti suggerimenti a tirare fuori le risposte giuste.
La professoressa – di cui non ricordo il nome, e mi dispiace – intuì la mia condizione, forse più che per il mio comportamento irritante dal rendimento scolastico sempre più scadente.
Dopo un compito in classe in cui riconsegnai il foglio in bianco, mi trattenne mentre stavo uscendo, e rimaste sole provò a dirmi: “Cosa ti succede, eri così brava…”, ma s’interruppe e vidi che si asciugava gli occhi con un gesto quasi di vergogna. Poi pronunciò parole che mi tagliarono l’anima: “Scusami se non sono stata capace, anch’io come te sto imparando”, e mi offrì con parole semplici tutta la sua disponibilità professionale e umana.
Sentii il nodo sciogliersi in gola liberando lacrime, e provai un sentimento di sincero affetto per la dolce professoressa che con tanta umiltà si era posta dinanzi ad una ragazzina indisponente, senza sentenziare ma cercando di comprendere. E mi detti da fare per riguadagnare terreno, grata per la fiducia che mi era stata accordata quando meno la meritavo, almeno a giudicare dall’esterno.
In quel periodo soffrii anche di disturbi che non avevano una categoria e un nome, e non erano presi in considerazione né dalla medicina né dai familiari. Transitori scompensi dell’età e delle circostanze, si pensava, che sarebbero spariti insieme alle cause. E tante cose in effetti si risolvevano da sole, ma spesso lasciando strascichi per lo più non manifesti, acquattati in attesa di insorgere.
Il panico. Quel freddo che saliva a ondate dalla pancia alla testa mentre la vista si annebbiava e le orecchie ronzavano. La terribile sensazione che mi assaliva in palestra alla vista dei cavalletti, mentre immaginavo di saltare, cadere e spezzarmi la spina dorsale, e restare in terra come un mucchietto di stracci. E da spericolata quale ero sempre stata, mi ritrovai d’un tratto incapace di superare un gradino, un minimo dislivello o intoppo che mi si presentasse davanti.
Chiesi ai miei di richiedere l’esonero dall’attività di educazione fisica, motivandola “per indisposizione”, che ottenni senza domande e obiezioni da parte di nessuno. Passavo quelle fatidiche ore di lezione rannicchiata in fondo alla palestra, piena di vergogna e d’invidia per le mie compagne che fino a poco prima avevo sempre battuto senza fatica in ogni tipo di esercizio, chiedendomi confusamente perché mi fossi bloccata in quel modo e se mai mi sarei ripresa.
Intanto ingrassavo. Divoravo dolci nascosta in qualche punto della casa, ricacciando indietro le lacrime. Ma quel buco sembrava non riempirsi mai. Una voragine che mi risucchiava al fondo, che rendeva sempre più spasmodico il bisogno di ingurgitare cibo. Mi sentivo colpevole e di rimando incolpavo tutti. Finché non decisi di smettere di mangiare passando a un altro disturbo alimentare che non si chiamava ancora anoressia, l’altra faccia della bulimia nervosa.
Subii più tardi sul posto di lavoro quello che oggi viene definito mobbing, riservato dai colleghi a noi giovani apprendiste.
Nei primi tempi la situazione era seccante ma sopportabile, una scaramuccia continua che però si spingeva sempre oltre, arrivando a farsi esasperante e offensiva senza che nessuno dei dirigenti vi ponesse rimedio. Anzi, il capoufficio sembrava divertirsi a osservare i continui assalti e non di rado a rincarare la dose.
Non era concesso dai nostri persecutori un momento di tregua, si arrivava a sera con i nervi a fior di pelle e l’impulso di scappare via, senza rimettervi più piede, da quella stanza dove la tensione faceva scintille.
Quando qualcuna di noi, particolarmente presa di mira o in quel giorno più vulnerabile, scoppiava in un pianto isterico, il capoufficio fingeva una ramanzina che era una farsa, e tutto riprendeva peggio di prima.
Cosa ci facevano di male? Niente che si potesse riferire senza apparire esagerate. Ma erano continue angherie che si passavano come una palla avvelenata in un gioco di squadra bene organizzato, per centrare i nostri punti deboli che andavano a colpire senza pietà.
E ogni debolezza svelata, diventava punto di forza degli attaccanti.
Un logoramento quotidiano portato avanti metodicamente dal gruppetto dei colleghi, senza mai permettere di stabilire un contatto individuale oltre la cortina sprezzante che li avvolgeva.
Non ci toccavano mai apertamente nella dignità della persona, non ci davano modo di poterli accusare di nulla in particolare, ma lavoravano instancabilmente con allusioni, cenni d’intesa e gesti provocatori, che sortivano l’effetto di una doccia scozzese.
Dopo diversi mesi di questo clima, la mattina non avevamo più il coraggio di varcare la soglia dell’ufficio, ci trascinavamo dentro come fosse lo studio di un dentista.
Finché una nostra collega non cedette e si licenziò in tronco, e i commenti sarcastici furono che ultimamente la poverina dava segni di esaurimento nervoso, che forse aveva problemi in famiglia o col fidanzato, o forse non era adatta alla vita d’ufficio.
Seguì una brevissima tregua, poi l’offensiva riprese più ostinata e agguerrita. Ci difendevamo con l’apatia e venivamo rimproverate di scarsa efficienza, mentre i colleghi esultavano.
Per non dire di quello che si doveva sopportare incessantemente per sfuggire agli attacchi a sfondo sessuale, allora quasi una pratica assodata in una società maschilista e ipocrita. Solo un cenno, pro-memoria.
Quelli della mia epoca ricordano: le molestie cominciavano dall’età dei giochi e crescendo andavano a peggiorare, e se qualcuna ne faceva parola era una scostumata.
Per strada, fuori e dentro la scuola, sui mezzi pubblici, al cinema e perfino in chiesa, c’era sempre il molestatore in agguato, di solito dall’aspetto curato e dall’età indefinibile, che puntava la vittima di turno riuscendo a paralizzarla nel pensiero e nei movimenti, come usano certi animali con le loro prede prima di azzannarle. Ma difficilmente si spingevano oltre, anche perché nella società di allora ci si sentiva osservati e si sapeva che chiunque poteva intervenire al bisogno. Un deterrente venuto a mancare nella società odierna, che lascia sola la vittima in balia del suo assalitore. Che troppo spesso colpisce, con una ferocia inaudita: stupratore e assassino.
Altra forma di persecuzione reiterata – o stalking, oggi reato punibile per legge – mi è capitato di sperimentare da bambina.
Vicino a noi viveva una famiglia chiassosa, litigiosa, che disturbava il vicinato con continue scenate che culminavano spesso con percosse e grida di aiuto.
Uno dei figli in particolare, Gino, si dimostrava aggressivo e violento, ed era più volte finito in carcere per furti e risse con ferimenti.
Le nostre proprietà erano divise da una recinzione coperta di roselline bianche che non impediva la visuale, ma creava una certa distanza anche per il diverso aspetto che distingueva i due terreni, il nostro curatissimo e l’altro ingombro di rifiuti e refurtiva varia.
Gino fece amicizia con l’affittuario che venne ad abitare sopra il nostro appartamento, un tizio che viveva senza lavorare e raccoglieva e istradava ragazzi sulla via della piccola delinquenza, traendone il suo profitto.
La combriccola passava le nottate nello spregio totale del riposo altrui e solo verso l’alba si scioglieva, quando gli uomini si preparavano per andare al lavoro, lividi di stanchezza e di rabbia dopo un susseguirsi di notti insonni e rumorose.
Mio padre si confrontò più volte con questa persona nel tentativo di indurla a ragionare, ottenendo solo un maggiore impegno nel renderci la vita infernale.
Per tutta la notte un pallone di quelli pesanti, con i bocchettoni, veniva battuto e ribattuto sul pavimento, con un ritmo ossessivo che mandava in frantumi il cervello e logorava i nervi.
Preso dalla disperazione, mio padre – che non sarebbe mai ricorso alla legge, convinto che tutto si potesse appianare fra persone civili – si rivolse per aiuto al maresciallo dei carabinieri, il quale convocò l’inquilino per una bonaria lavata di testa e nulla più, sortendo effetti ancora più drammatici.
Il signore del piano di sopra si vendicò della mossa difensiva di mio padre, e dalle provocazioni passò alle minacce servendosi dei ragazzi della sua ignobile scuderia.
Mio fratello, operatore cinematografico, rincasava dopo la mezzanotte e Gino, braccio destro del mister, come tutti lo chiamavano, s’incaricò di gridare con frequenza sistematica, al di là dalla recinzione, che “chi gira di notte incontra la morte”.
La sera non si andava a letto finché non rientrava mio fratello e si chiudeva la porta di casa. Si viveva in un clima di massima esasperazione, che da un momento all’altro poteva malamente esplodere.
Mio padre resisteva e con lui tutta la famiglia. Non si parlava più tra noi, non si respirava nemmeno, tutti concentrati a contenere ansia e paura.
Una resistenza che indispettì il nostro persecutore, che s’inventò un’altra forma di tortura. Gino, sempre Gino, ebbe l’ordine di calciare nel suo terreno e di fare volare ogni cinque minuti il pallone nel nostro orto. Poi pretendeva gridando che gli fosse restituito e continuava a fare danni, incentivato da quel mascalzone di mister che sempre più spadroneggiava aspettando il crollo di mio padre e dell’intera famiglia.
Finché ogni limite non fu superato e assistetti alla capitolazione della ragione di fronte alla brutale ignoranza.
Era il tramonto. Gino gridava di ridargli il pallone, forse per la decima volta in quella serata, ed io stavo per rilanciarlo, ma lo sguardo di mio padre mi bloccò. In quel momento suonarono le campane della chiesa, che da noi si sentivano forte, e Gino disse: “Ridatemi il pallone o stasera le campane suoneranno per voi”.
Non sapevo che fare. Volevo chiedere aiuto e non sapevo a chi rivolgermi. Mio padre continuava a sistemare il campetto di lattuga, falcidiato dalle pallonate, e mia madre gli stava dietro con la zappetta dirigendo nei solchi l’acqua della fontana.
Gino se ne stava a braccia conserte a ridosso della rete, lo sguardo torvo puntato al pallone che spiccava tra i ciuffi di verdura.
All’ennesima intimazione, mio padre si diresse alla baracca e vi sparì dentro, ed io dopo un po’ lo raggiunsi. Lo trovai che arrotava l’accetta con lo stesso gesto lento e metodico con cui sulla cinghia affilava il rasoio per radersi. Ero paralizzata dal terrore. Gino continuava a urlare e mio padre non finiva di arrotare l’accetta, pallido e con le mascelle serrate.
Gelido, più del filo dell’accetta che diventava sempre più lucido.
Suonarono le campane e Gino ripeté la minaccia in tono lugubre.
Pensavo ai miei fratelli che dovevano rientrare e non sapevo se augurarmi che non tornassero potendosi così salvare, o che potessero invece intervenire in qualche modo. Poi smisi di pensare e mi attaccai ai pantaloni di mio padre. Gli gridai fra le lacrime “Che cosa fai, andiamo a casa!”.
“Fra poco” lui mi rispose, continuando ad affilare la scure.
“Lascia stare quell’accetta” gridai ancora, “che ci devi fare, lasciala stare!”.
“Devo tagliare un melo che s’è ammalato e spaccare la legna per l’inverno”.
“Lascia stare, papà, continui domani”.
Mio padre disse:
“Ci sono cose che non possono aspettare. Preparo l’accetta per quando dovesse servire. Per tagliare un albero che non frutta o per difendere la mia casa e la mia famiglia”.
La sua voce mentre mi rassicurava mi spaventava a morte. Suonarono di nuovo le campane, Gino urlava arrochito.
“Ridagli il pallone papà, è ora di cena”.
“Vorrei poterlo fare ma non è possibile” lui mi rispose. “Non si può permettere che i prepotenti t’invadano la casa e la vita familiare senza reagire, semplicemente non si può”.
Poi mi ordinò di rientrare e obbedii, la sua voce non ammetteva repliche.
Si fece buio. Tornarono i miei fratelli e solo allora mio padre rientrò, dopo aver chiuso il cancello.
Il mattino dopo vidi oltre la rete, nel terreno dei vicini, il pallone floscio, squarciato con due precisi colpi d’accetta.
Non ci furono rimostranze. Il gioco del pallone continuò, ma meno feroce e insistente.
La brutta storia finì quando alcuni mesi dopo si liberò l’appartamento del piano di sopra e i ragazzi si dispersero in altre direzioni e qualcuno si rimise in riga.
Mio padre tagliò effettivamente un melo che si stava seccando, e spaccò tanta legna che bastò anche per l’anno seguente.
Maria Lanciotti
(Fine)