Arte e dintorni
Maria Paola Forlani. Gli architetti di Zevi 
Storia e controstoria dell’architettura italiana 1944 – 2000
12 Luglio 2018
 

Al Maxxi di Roma si è aperta una mostra dedicata a Bruno Zevi nel centenario della nascita che resterà aperta fino al 16 settembre: “Gli architetti di Zevi. Storia e controstoria dell’architettura italiana 1944-2000” a cura di Pippo Ciorra e Jeane-Louis Cohen, realizzata con la Fondazione Zevi.

Bruno Zevi nasce a Roma nel 1918. Frequenta il liceo “Tasso” e diventa amico fraterno di Mario Alicata e Paolo Alatri. Dopo la maturità si iscrive alla facoltà di architettura. A seguito delle leggi razziali, lascia l’Italia nel 1939 per recarsi prima a Londra e poi negli Stati Uniti. Qui si laurea presso la Grauduate School of Design della Harvard University, diretta da Walter Gropius, e scopre Frank Lloyd Wright, della cui predicazione a favore di un’architettura organica rimarrà acceso sostenitore per tutta la vita. A New York, affiancato da Aldo Garosci, Enzo Tagliacozzo, Renato Poggioli e Mario Salvadori, dirige i Quaderni italiani del movimento Giustizia e Libertà: quattro numeri, fra il 1942 e il 1944, distribuiti illegalmente al di qua delle Alpi con la complicità dell’intelligence Service. Seguendo, con forza, l’apostolato dei fratelli Carlo e Nello Rosselli, assassinati a Parigi nel 1937.

Dagli USA, con lo pseudonimo Bruno Archi, scrive nel 1943: «La tragedia non è tanto che ci sia il fascismo; la tragedia è che ci sia il fascismo, quando i fascisti sono tato pochi. L’indifferenza, l’apatia, l’assenteismo – in tutti noi – sono forse peggiori del male». Nel 1944 rientra finalmente a Roma: partecipa alla lotta antifascista nelle file del Partito d’Azione, promuove l’APAO (Associazione per l’architettura Organica) e, l'anno successivo, fonda la rivista Metron.

Zevi è sempre pronto a spendersi per una ricostruzione non solo architettonica ma culturale che potesse riscattare tutti dall’oscurantismo fascista.

E per fare questo non bastava l’università e la carriera accademica. Zevi da sincero democratico è convinto che la cultura debba arrivare a tutti ed essere divulgata con ogni mezzo. Dai libri a basso costo, che nella sua vita produrrà in maniera incessante come autore ed editore, a mostre rivoluzionarie, fino ai mezzi di comunicazione di massa che lui saprà gestire come pochi. Con la sua voce scandita e baritonale, i gesti ampi e teatrali, l’immancabile papillon, l’intelligenza prensile unita a una potente capacità retorica, Zevi fu un precursore nel costruire quell’immagine di sé, necessaria a cavalcare radio e televisione per portare il dibattito sull’architettura nelle case di tutti gli italiani. Fu soprattutto dalle colonne della sua rivista Architettura – cronache e storia e dalla storica rubrica sull’Espresso, a cui collaborò dalla fondazione fino al giorno della sua scomparsa, che Zevi tracciò la linea della sua lotta politica e pratica contro «l’architettura della repressione classicista, barocca e dialettale». Giudizio categorico contro tutto ciò che riteneva in odor di fascismo. L’Eur: «Un orrore colossale e mostruoso. L’architettura fascista nella sua edizione più fiacca e balorda». Disneyland e i parchi giochi: «Percorsi obbligati, costruiti sui modelli dei campi di concentramento». Il Vittoriano: «Kitsch, accademico, devitalizzato, glacialmente arcaico, privo di gioia e di flagranza». La simmetria: «Una grave malattia psichica, sintomo di instabilità interiore. Un edificio simmetrico incarcerato in se stesso, è antisociale. Tanti edifici simmetrici formano un discorso autoritario».

Sferrò una lotta senza quartiere a ogni architettura coercitiva, ma soprattutto negli anni Ottanta al nemico assoluto, Paolo Portoghesi e il citazionismo post moderno che lui vedeva come una rinascita della monumentalità retorica, schiacciante e nostalgica del passato.

Il suo caratteristico “stile” appassionato e torrenziale si lascia riconoscere anche scorrendo l’elenco dei volumi da lui dati alle stampe nel corso della vita: dove ogni pubblicazione risponde a un’incondizionata adesione, a un pieno coinvolgimento che oltrepassa di gran lunga i semplici doveri accademici. Così, le monografie dedicate a singoli architetti (Franc Lloyd Wright, 1947; Erik Gunnar Asplund, 1948; Richard Neutra, 1954, cui in seguito si aggiungeranno quelle su Erich Mendelsohn, 1970 e Giuseppe Terragni 1980) rivelano in modo trasparente le sue predilezioni, le sue ferventi scelte di campo. E allo stesso modo, libri come Saper vedere l’architettura. Saggio sull’interpretazione spaziale dell’architettura (1948), così come pure Poetica dell’architettura neoplastica (1953), Architettura in nuce (1960) e Il linguaggio moderno dell’architettura. Guida al codice anticlassico (1973), testimoniano con precisione la concezione zeviana dell’architettura come spazio: spazio interno, e perciò coincidente con il suo utilizzo, o meglio ancora, con l’esperienza di vivere, e non semplicemente con la sua figuratività, appartenente piuttosto a una concezione pittorica, che Zevi ha ben cura di distinguere da quella architettonica.

Dopo la fine del Partito d’Azione, Zevi non aderì ad altri partiti, e per un trentennio si sentì politicamente orfano anche se si mostrò sempre disponibile a contribuire a ogni iniziativa che rendesse democratico e liberale il socialismo italiano di cui condivideva la tendenza riformatrice. Perciò, alla fine degli anni settanta, fu inevitabile l’incontro con i radicali: quando nel 1987 gli fu proposto di candidarsi al Parlamento per il Partito Radicale di cui era diventato presidente, rispose: «Accetto perché da azionista vedo in voi gli eredi dei Rosselli». La sua presenza parlamentare (1987 – 1992) nel gruppo di minoranza fu esemplare per l’intelligenza che non fece mai pesare il prestigio e la fama di cui godeva.

La mostra del Maxxi, racconta la biografia di Bruno Zevi e dei progetti in un doppio binario, caratterizzati da due colori contrastanti, l’arancio vintage e il giallo.

I lavori presentati, come in uno studio, con tavoli, mensole e librerie sono realizzati dai suoi “pupilli”, alcuni più famosi altri meno conosciuti, altri ancora di cui è in atto un processo di revisione critica. Ecco allora Carlo Scarpa e Pier Luigi Nervi, Renzo Piano, Franco Albini, Piero Sartogo e Maurizio Sacripanti, Un omaggio doveroso a un grande intellettuale e alla sua ostinata difesa dei valori liberal-democratici che getta una luce diversa sulla storia dell’architettura.

 

Maria Paola Forlani


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