Questa volta devo parlare di una tragedia. Avrebbe dovuto essere la classica crociera, di un giorno sul Lago Maggiore, da ricordare per tanto tempo per le cose belle viste, per la gioia collettiva e il buonumore. Invece… Si trasformò in un fatto sconvolgente, talmente incredibile che toccò il cuore di tutti, in particolare dei valtellinesi. La guerra era finita da poco più di tre anni. Un conflitto che aveva lasciato in tante famiglie un segno profondo, una ferita dolorosa per la mancanza di un proprio caro (c’erano ancora tanti che speravano, contro ogni evidenza, che un giorno o l’altro il marito o il figlio o il fratello – dichiarati dispersi – sarebbero rientrati come per magia dall’immensa e spietata Unione Sovietica) o per i ricordi di ingiustizie e di orrori visti o subiti. Nelle nostre piccole comunità la festa patronale, le gite parrocchiali o quelle organizzate dalla fabbrica dove si lavora diventano un momento unico ed eccezionale per far festa, per stare in allegria tutt’insieme. In poche parole, per dimenticare – per quanto è possibile – quel che è stato.
Ed ecco in che modo quella che doveva essere una grande festa si trasformò, invece, in una spaventosa tragedia. L’anno è il 1948. È la festa dei santi patroni di Sondrio, Gervasio e Protasio, il 19 di giugno. E proprio da Sondrio erano partiti, prestissimo, ottocento tra operaie e operai, la maggior parte donne, lieti e festosi. In pratica era la gita sociale del Cotonificio Fossati. Avevano invitato anche gli ex dipendenti e c’erano perfino una trentina di filatrici piuttosto anziane. Erano arrivati in treno e, a Laveno, erano saliti su tre battelli prenotati apposta per la gita: l’Alpino, il Piemonte e il Lombardia. Laveno è sulla sponda est del lago Maggiore. Verso le 10:00 arrivano a Stresa, sulla sponda ovest del lago. Lo spirito è alto, nonostante una pioggerella fastidiosa. Si resta a Stresa per un’ora e mezza. Si tratta di una gita. Si scherza, si ride, si sta allegri. Intanto i gitanti, visto il tempo bruttino, con rovesci di pioggia fastidiosi, affollano la stazione dei battelli. Aspettano che i battelli diano il segnale di partenza per salire a bordo.
Il programma della gita prevede di toccare Pallanza. Manca un quarto a mezzogiorno. I battelli sono ormeggiati al pontile. Vien dato il segnale d’imbarco. In quel momento tanti, troppi, si precipitano sul pontile per salire sui battelli e, perché no, anche per trovare i posti migliori. E in questo momento succede l’irreparabile. Il pontile, nella parte verso il lago, cede all’improvviso e provoca la caduta nell’acqua di quasi duecento persone. Purtroppo la calca non riesce a bloccarsi, anche perché – a causa della pioggia, che continuava a cadere – il pontile di legno risulta scivoloso. La tragedia avviene in pochi minuti. Purtroppo i battelli – i due speciali, “Lombardia” e “Piemonte”, più uno di linea, “L’Alpino” – erano ormai davanti al pontile e questo contribuisce a far finire sotto la chiglia tutti quelli che erano davanti. E, tra l’altro, il poco spazio tra battelli e il pontile rende molto difficile le operazioni di salvataggio.
Le urla di quelli che sono precipitati nel lago o che stanno per finirci dentro mettono in moto i primissimi interventi di soccorso. Arrivano velocemente, per fortuna, i barcaioli locali. Tra loro va ricordato almeno il trentatreenne Enrico Diverio. Non esita un istante. Senza pensare ai rischi che corre, si toglie le scarpe e i pantaloni; e si tuffa nel lago. Riesce a salvare parecchie persone che, anche impedite dagli abiti, si dibattono disperatamente. Non contento – come si legge nel verbale, compilato un mese dopo la tragedia da Pietro Valditara, il segretario comunale di Stresa, – «dato che parecchi erano già stati assorbiti dalle acque, il Diverio non esitava a tuffarsi raggiungendo il fondo del lago anche sotto le chiglie dei piroscafi e, a più riprese, riusciva portare in superficie cinque vittime, delle quali due risultarono sopravvissute dopo le cure che furono loro prestate dal locale Ospedale. Si fa presente che le acque hanno in quel punto la profondità di 6-7 metri e che le operazioni erano particolarmente difficili data la ristrettezza di spazio in cui avvenne la sciagura, attesa la massa dei naufraghi e tanto più che per risalire alla superficie si doveva evitare le chiglie dei battelli».
La tragedia ebbe naturalmente una vasta eco sui giornali. Il Corriere della Sera, nell’edizione di domenica 20 giugno, il giorno dopo la tragedia, pubblica un articolo dal titolo: “Crolla il pontile di Stresa e centinaia di persone precipitano nel lago”. Il catenaccio dà immediatamente lo spessore della tragedia: “Dodici salme recuperate finora”. E, infatti, alla fine, saranno in dodici – dieci donne (tra di loro una quindicenne, una diciassettenne, una diciottenne, una ventenne e una ventunenne. La più anziana aveva appena trentott’anni) e due uomini – a perdere la vita nelle acque del lago Maggiore. Sette risiedevano a Sondrio, quattro ad Albosaggia e una a Faedo.
Una tragedia da ricordare, avvenuta settant’anni fa. Ecco, di questo tragico episodio ho un ricordo famigliare. Mio zio Giulio Romeri (aveva sposato la mia zia Carla Damiani) faceva il cuoco al Cotonificio Fossati e anche lui aveva partecipato a quella che avrebbe dovuto essere una lieta scampagnata sul lago Maggiore. Un giorno, io frequentavo ancora il liceo, me ne aveva parlato, dicendomi anche – ma così, quasi per caso – che era riuscito a salvare alcune persone dalle acque del lago. Ricordo che su una parete del suo appartamento c’era un quadretto che conteneva un attestato al valor civile. Poi, il tempo è passato e anche questo avvenimento è rimasto nascosto in un cassettino, dentro il grande armadio dei ricordi. Allora ho fatto una ricerca in Internet. E qualcosa ho trovato. Su Il Tempo di Milano (di domenica 20 giugno 1948) c’è una foto, con una didascalia che recita: “La signora Rosa Moscatelli, di 43 anni, abbraccia il suo salvatore Guido Romeri”. A dire il vero, il nome usuale di mio zio era Giulio Romeri (nei documenti ufficiali però era Giulio Guido). Ho continuato un po’ la ricerca e ho trovato la conferma che si tratta proprio di lui, di mio zio Giulio. Infatti, sul Corriere della Sera (sempre di domenica 20 giugno 1948), in un articolo di cronaca, trovo “Il cuoco Guido Romeri, di Sondrio ha salvato da solo 15 persone”. Non c’è più alcun dubbio che si tratti di lui; perché mio zio Giulio Romeri faceva il cuoco al Cotonificio Fossati.
Intanto, grazie a sua figlia Sonia, ho potuto avere tra le mani, con una certa commozione, un documento, rilasciato il 9 ottobre 1949 dal Ministro dell’Interno, Mario Scelba. Poche righe che attestano il conferimento di una Medaglia di bronzo al valor civile all’operaio Giulio Guido Romeri per l’atto coraggioso compiuto a Stresa il 19 giugno 1948: “Verificatosi il cedimento di un pontile sul lago di Stresa, e precipitate in acqua numerose persone che vi sostavano in attesa di imbarco, si prodigava infaticabilmente e con suo rischio nelle operazioni di salvataggio, riuscendo, dopo lunghi e generosi sforzi, a trarre in salvo molti pericolanti”. È bello scoprire di avere un’altra “persona speciale”, in questo caso un vero eroe, tra i propri zii.
Concludo ringraziando la giornalista de Il Giorno, Susanna Zambon, che con un suo commovente articolo mi ha stimolato a rievocare questa lontana tragedia. E grazie anche a chi ha creato un post, da cui mi sono permesso di trarre qualche immagine. Credo che l'autrice del post si chiami Vilma Burba.
Renzo Fallati