Si sa che il senso di un film, prima ancora che attraverso le battute pronunciate dai personaggi, ci è trasmesso attraverso le immagini; e soprattutto, forse, attraverso qualcosa che non decifriamo subito razionalmente, e che è l'atmosfera, la sensazione complessiva che quelle immagini creano.
A voler considerare soltanto razionalmente il film Manuel, un'opera prima italiana, già presentata al festival di Venezia, diretta da Dario Albertini, si potrebbe ritenere, almeno in un primo tempo, che racconti soltanto il positivo reinserimento sociale di un ragazzo, appena maggiorenne, che è stato a lungo detenuto in una casa-famiglia; che aveva probabilmente commesso alcuni forti o altri piccoli reati; la cui madre è in carcere per reati più gravi; e che ora è rilasciato in libertà con il compito di lavorare di notte in un panificio, di rimettere in ordine la casa popolare sul mare che era già stata assegnata a sua madre, di prendersi cura per tre anni della madre la quale, sotto la sua tutela, dovrebbe essere messa ai carceri domiciliari. Insomma: la sua storia, in apparenza, è quella, tanto positiva da essere perfino edificante, di un ragazzo che sotto la guida di servizi sociali che hanno “funzionato”, ha messo la testa a posto, è diventato onesto, responsabile e maturo, perfino più maturo della sua età.
In effetti, il film di Dario Albertini è più contraddittorio, più ambiguo, di quanto la vicenda, così esposta, può far supporre. E ciò in forza di alcuni indizi con cui le immagini, prima ancora che certi episodi secondari, contrappuntano tutto il racconto.
Per esempio: nella casa famiglia, come è forse inevitabile in un ambiente così problematico, la disciplina è imposta a volte dalle assistenti sociali con una certa nevrastenia. L'amore del protagonista con una ragazza lì detenuta, è ostacolato, represso, per ragioni che non ci risultano del tutto comprensibili.
Ma più ancora: lo squallore degli ambienti – quello squallore che è così caratteristico degli uffici statali, almeno in Italia; la malinconia opprimente di quella cittadina sul mare semideserta, sotto una luce invernale; l'aspetto funebre dei palazzoni popolari che contengono l'appartamento in cui il ragazzo dovrà vivere; la solitudine dell'appartamento, rischiarato la sera soltanto da un vecchio televisore; la prospettiva che in quel paese, in quegli ambienti, dovrà trascorrere almeno tre anni della propria vita appresso a sua madre, perché tanto durerà la detenzione domiciliare di quest'ultima; questo complesso di elementi ci fa capire che la vita normale che è stata ritagliata per lui è di un'aridità che deprime ogni impulso vitale. Mentre certe vie di fuga che sono come incarnate da altri personaggi che incontra (una ragazza che fa l'attrice e che cerca di sedurlo; un amico, affiliato alla malavita, che vorrebbe fargli gestire un locale notturno; un ex-detenuto nella stessa casa-famiglia che lo avvicina a un giro di prostituzione), tentazioni a cui il protagonista magari cede per un attimo ma che poi allontana da sé, risultano però più attraenti, più colorate, più avventurose, di quel binario che è stato disegnato per lui.
L'attrice gli parla di un film di Truffaut, Baci rubati, che il protagonista non può che ignorare.
Ma su Manuel si può intravvedere il ricordo di un altro film di Truffaut, bellissimo, intitolato Il ragazzo selvaggio. Si raccontava di un ragazzo, nell'Ottocento, cresciuto da solo nella foresta, preso in cura da un medico francese che si incaricava di alfabetizzarlo e di insegnargli le regole della civiltà. Pur apprezzando l'opera pedagogica di quel medico illuminato, Truffaut lasciava trapelare dal suo racconto un senso di nostalgia acutissima per la vita nella foresta, forse più libera e più felice.
Un'insofferenza in parte simile accompagna la storia di Manuel nel film di Albertini, che si concretizza nel finale in un nodo alla cravatta che al protagonista sta troppo stretto.
Dunque: un'opera prima interessante, che si avvale di buone interpretazioni, in particolare quella di Andrea Lattanzi nel ruolo del protagonista e di Francesca Antonelli in quella di sua madre.
Gianfranco Cercone
(Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema”
trasmessa da Radio Radicale il 5 maggio 2018
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