43. Disegnavo distrattamente la faccia di chi mi diceva che ballare era una sua “malattia”. Ero seduto da tempo sulla seggiola certificata dell'ordine professionale, si parlava del mondo dove la discoteca era diventata simbolo della “modernità”. Io sostenevo che un tempo la discoteca si chiamava balera ed aveva la stessa funzione, forse la differenza stava nel come si arrivava al locale dove la musica serviva a conoscere l'altra parte del cielo. La balera per “eccellenza” dei giovani sondriesi si trovava alla Moia, paese orobico che stava oltre l'Adda a cinquecento metri di quota; la si raggiungeva a piedi usando la mulattiera che partiva dal Porto dove era un'altra balera che era la balera d'estate.
Le ragazze della Moia erano famose per la loro bellezza e per la loro libertà di pensiero, erano assolutamente diverse dalle cittadine con un poco di puzza sotto il naso, loro apprezzavano i ragazzi che sapevano bestemmiare e fumare come turchi. Era il loro modo di esprimere il loro disprezzo per la media borghesia dei cittadini che non conoscevano cosa fosse il lavoro e non conoscevano il piacere del ballo come momento di libertà da usare per contrastare il mondo degli adulti troppo invischiati nelle convenzioni.
Avevo un pezzetto di cartone di una scatola di pelati cirio, la sua faccia prese forma per ripropormi momenti felici vissuti dove oggi esiste l'Hotel Campelli.
La mia urbanistica nasce entro il ricordo, non mi interessa la sua scientificità programmata da chi non ha mai conosciuto una ragazza che ballava alla Moia la sua gioventù con chi fumava tabacco di prima e sapeva farsi le sigarette.
Giuseppe Galimberti
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Disegni per raccontare il pensiero di un'epoca
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