Aristotele li aveva chiamati al tempo suo gli ‘abiti del male’. Poi il Cristianesimo ci aveva lavorato sopra e tagliando cucendo e ricamando ne aveva ricavato una serie di vizi e relativi rimedi per sconfiggerli. Fra i primi monaci che si erano dedicati allo studio di questa ‘veste’ abitudinaria e deformante, che una volta indossata resta difficile strapparsi di dosso e impedisce alla persona di assumere altra e più consona postura, etica e morale, un certo Evagrio Pontico che ne stilò una prima classifica poi riveduta e corretta nel corso dei secoli – e alla luce delle varie discipline – e ridotta all’elenco dei sette vizi capitali, cosiddetti in quanto potenzialmente promotori e causa di altri e peggiori mali, secondo la dottrina cattolica.
I sette vizi capitali li conosciamo tutti ma non guasta ricordarli, in questo preciso ordine: superbia, avarizia, lussuria, invidia, gola, ira, accidia. Si salvi chi può, in alto in basso e di traverso. Ma Roma al momento batte tutti, capitale del malcostume assurto a liceità conclamata che tutto permette e nulla garantisce, cuore malato di un organismo corroso che pure potrebbe riprendersi e sollevarsi se solo si volesse porre fine alla ripetizione inesorabile dei peccati mortali che stanno concorrendo a devastare la città dai tanti attributi, capitale politica dell’Italia e sede del papato, assieme ai suoi abitanti.
Come si combattono i vizi capitali? Con l’esercizio delle virtù opposte, suggerisce la dottrina e prima ancora il buon senso, ed è qui il punto cruciale e dolente, con l’accidia in agguato che induce alla rinuncia e all’inerzia, il peggiore di tutti i mali.
Ma Roma non si abbandona al destino che non è il suo e i romani lo sanno: forza Roma!
Maria Lanciotti