Arte e dintorni
Carlo Bononi. L’ultimo sognatore dell’Officina Ferrarese
Enea fugge da Troia in fiamme con Anchise e Ascanio
Enea fugge da Troia in fiamme con Anchise e Ascanio 
16 Ottobre 2017
 

Certo sarebbe cosa nova e bella vedere un Cristo in croce le piaghe, per i sputi, per i scherni e per il sangue trasformato; san Biagio dai pettini lacero e scarnato; Sebastiano pieno di frezze rassimigliare un istrice; Lorenzo ne la graticola arso, incotto, crepato, lacero e difformato.

Giovanni Andrea Gilio

 

 

Il suo nome è stato accostato a quelli di Tintoretto e Caravaggio. Guido Reni ne ammirava la «sapienza grande nel disegno e nella forza del colorito». Pochi sono stati capaci di dipingere nudi maschili più potenti e seducenti di quelli di Carlo Bononi. Le sue tele sono vere e proprie meraviglie pittoriche create in tempi tragici, di carestie e pestilenze, nell’Italia di inizio Seicento. A servizio, ma non troppo, della Controriforma.

La mostra aperta a Palazzo dei Diamanti di Ferrara sino al 7 gennaio 2018, costituisce un’occasione imperdibile per accostarsi a un capitolo della storia dell’arte affascinante anche se poco conosciuto. L’appuntamento espositivo è dedicato, infatti, a uno dei grandi protagonisti della pittura del Seicento: il ferrarese Carlo Bononi, il cui nome, non a caso, è stato spesso accostato a quelli di Tintoretto, dei Carracci o di Caravaggio. La rassegna – la prima monografica a lui dedicata – è organizzata dalla Fondazione Ferrara Arte ed è curata da Giovanni Sassu e da Francesca Cappelletti.

Per secoli Bononi, come del resto l’intero Seicento ferrarese, è rimasto in ombra, offuscato dal ricordo della magica stagione rinascimentale degli Este. Una lenta operazione di recupero critico ha progressivamente messo a fuoco la figura di un artista unico, che ha saputo interpretare in modo sublime e intimamente partecipato la tensione religiosa del suo tempo.

Pittore di grandi cicli decorativi sacri e di pale d’altare, Bononi elabora un linguaggio pittorico che pone al centro l’emozione, il rapporto intimo e sentimentale tra le figure dipinte e l’osservatore. Negli anni drammatici dei contrasti religiosi, dei terremoti e delle pestilenze, il sapiente uso della luce e il magistrale ricorso alla teatralità fanno di lui uno dei primi pittori barocchi della penisola, come testimoniano le seducenti decorazioni di Santa Maria in Vado.

L’impresa riguardò il soffitto della navata, il transetto e il catino absidale sul tema principale dell’esaltazione del Sangue di Cristo, uno dei dogmi riconfermati dalla dottrina tridentina e al centro della predicazione dei canonici lateranensi, committenti del ciclo. L’apoteosi del programma, che si dipana nelle zone più rappresentative della chiesa – e forse anche il culmine dell’invenzione del suo autore – è l’Esaltazione del Santo Nome, dove un tripudio di ragazzi e ragazzini adagiati su nuvole argentee, immersi in vapori grigiastri che ne nascondono parte dei corpi acerbi ma atletici, si indicano l’un l’altro, senza troppa sorpresa, il prodigio o indirizzano verso lo spettatore sguardi malinconici. Gesti ampi ma aggraziati, schiene tornite e senza ali, un variare di posture e di inclinazioni tradiscono uno studio approfondito dell’anatomia, che spinse alcuni dei biografi ad immaginare studi accademici a Roma; mentre quegli sguardi sollevati e quelle teste piegate con dolcezza sembrano cogliere tutta la fragilità e l’incertezza dell’adolescenza.

Si tratta invece di angeli, di enigmatiche figure paradisiache, raffiguranti senza ali come quelli del Giudizio michelangiolesco e poi di Bastianino nella vicina cattedrale, secondo un’iconografia che non ha nulla di profano o di volutamente ambiguo, ma si inserisce in una tradizione che faceva capo a San Tommaso d’Aquino.

Bononi è stato anche un grande naturalista: nelle sue opere il sacro dialoga con il quotidiano. Tele come il Miracolo di Soriano o l’Angelo custode mostrano quanto sentita fosse per l’artista la necessità di calare il racconto religioso nella realtà, incarnando santi e madonne in persone reali e concretamente riconoscibili. In questa prospettiva, pochi come lui hanno saputo coniugare il nudo maschile con le esigenze rappresentative dell’Italia ancora controriformista di inizio Seicento: i suoi martiri e i suoi santi sono dipinti con perfezione potente e, al contempo, suadente, ma senza alcun gusto voyeristico.

Bononi non ha dipinto solo soggetti religiosi, è stato anche il sorprendente interprete di una classe di committenti colti e attenti alle arti, con preferenze spiccatamente musicali, inclini a contenuti figurativi un po’ licenziosi, come provano le varie redazioni del Genio delle arti, con i quali Bononi dialoga apertamente con Caravaggio e i suoi seguaci.

Tra le opere profane di Carlo Bononi un piccolo capolavoro è la tavola Enea fugge da Troia in fiamme con Anchise e Ascanio (1615-18). Nel dipinto si possono cogliere quegli echi manieristici che furono una costante nell’opera del Bononi, ma che si concentrano soprattutto tra giovinezza e prima maturità. Il fare minuziosamente didascalico impiegato nonostante il piccolo formato è tipico di un ragionare secondo modelli ancora in parte tardo cinquecenteschi: il vecchio Anchise stringe forte a sé i penati che non ha voluto abbandonare; la città di Troia è identificata dal cavallo ligneo donatole dai Greci che, a confronto con le minuscole figurette ai suoi piedi, rivela le proprie dimensioni colossali, gli ornamenti oscillanti delle vesti di Enea, così come la sua muscolarità esibita, ricordano le figure possenti della stagione tardomanierista bolognese di cui furono protagonisti Lorenzo Sabatini e Prospero Fontana.

Tutto questo era ben chiaro agli occhi dei contemporanei. Il “divino” Guido Reni, a pochi mesi di distanza dalla morte di Carlo, avvenuta nel 1632, lo esaltava descrivendolo «pittore non ordinario» dal «fare grande e primario», dotato di «una sapienza grande nel disegno e nella forza del colorito».

Un secolo dopo Bononi attirava l’attenzione dei viaggiatori del Grand Tour, da Charles Nicolas Coshin a Johann Wolfang Goethe, ma anche quella del grande Giuseppe Maria Crespi e dell’abate Luigi Lanzi, il quale, nella Storia della pittorica d’Italia lo definisce «un de’ primi che l’Italia vedesse dopo i Carracci». Rafforza l’idea che i grandi della storia dell’arte si sono fatti di questo pittore la valutazione di Jakob Burckhardt che nel Cicerone (1815) davanti alle decorazioni di Santa Maria in Vado si dichiarava convinto di trovarsi di fronte al prodotto di una delle menti più brillanti del suo tempo.

 

Maria Paola Forlani


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