Il titolo originariamente pensato e individuato ne L’Opposta riva ben si addice a lasciar intendere e mettere in evidenza le complesse, spesso contrapposte, ancorché difficili a svelarsi e mai del tutto coglibili parti che nel poeta e nell’uomo Stefano Guglielmin convivono e cercano, nel farsi della scrittura e nel fluire dei versi, di trovare un argine che le contenga, permettendo a lui di collocarsi e di procedere lungo un percorso inscritto nella realtà e nella vita. Così il titolo definitivo, La distanza immedicata, illustra in maniera quanto mai emblematica ed appropriata la condizione esistenziale dell’uomo contemporaneo, nitidamente osservata dalla posizione e dallo sguardo veggente del poeta, raccontata e riconoscibile attraverso la verità toccante che scaturisce dalle sue parole.
La nuova raccolta poetica di Stefano Guglielmin è simbolica narrazione del cammino compiuto dall’umanità, da una supposta condizione di originaria e innocente integrità, alla presa di coscienza dell’inesorabile e insanabile frattura esistente fra l’individuo e il mondo, fra l’infinitezza del desiderio e i limiti, pesanti e concreti, che l’esistenza impone («poesia era l’enorme/ vuoto, la fitta rete d’uova/ quel brulichio dal fondo/ che saliva, dopo, strisciando/ seppellendo i morti, adorando/ in poco tempo il lampo, la/ madre, l’area del pentagono/ l’agonia»). Ed è testimonianza, nel contempo, del percorso che egli compie, come essere umano assoggettato ai limiti e al dolore dell’esistere, e come poeta che usa gli strumenti propri del “mestiere”, alla ricerca di qualcosa che, di fronte a tanta costrizione e a tanto dolore possa darsi come salvabile o salvifico («tutto nella singola fragranza/ anche l’ombra se vuoi anche la buca/ sfinita/ da dove dico bocca prato dico salva/ la via dei canti»).
Un percorso coraggioso, potremmo dire perfino un po’ temerario, che l’autore compie, consapevole dei rischi, seguendo immaginariamente lo scorrere del fiume, che si fa qui metafora della vita, e trovando sponde che contengano il suo andare, la sua impossibilità di approdare all’una o all’altra riva, essendo il vivere un perpetuo stare in bilico, un fluire cui è impossibile sottrarsi.
E Stefano Guglielmin procede, infatti, con l’andatura consapevolmente interrogativa e dubbiosa di chi, appunto, va cercando, concedendosi e sopportando una “per certi versi” insostenibile incertezza fino all’ultima sillaba, giacché, data l’autenticità del suo indagare, ogni esito e possibile risposta sono imprevedibili («e nessuna voglia di tornare. o forse sì»).
Una capacità, la sua, e insieme una risolutezza che vengono da una consuetudine con la scrittura e da una pratica costante con i versi e il ragionar per versi, di modo che egli non tema la vertigine di star sulla soglia e camminare lungo il crinale incerto dell’esistere, cogliendone le contraddizioni e le lacerazioni, sostenendosi su quella indicibile insensatezza propria della scrittura poetica che, nel dare voce alla sua domanda, sostiene la sua attesa e gli permette di proseguire il viaggio. Un viaggio che è esperienza e narrazione e che, proprio per il suo svolgersi fedele all’urgenza e all’autenticità dell’autore, fa sì che egli incontri in maniera unica e sorprendente la parola poetica, valorizzando con straordinaria efficacia l’ambiguità di senso che le è propria. E rinunciando al controllo sulla propria scrittura, lasciandola fluire, egli permette al testo poetico di aprire ad altri sguardi e ascolti.
Senza mai sottrarsi all’urgenza di trovare una possibile mediazione o medicazione fra il desiderio di ripristinare quell’unità-interezza primordiale e la limitatezza dell’esistere, egli accoglie e dà ascolto all’impulso a muoversi e all’andare incontro, accettando ad ogni passo la sfida, cui fa eco una rinnovata e ripetuta presa di consapevolezza della irrevocabile ferita, poi che anche l’altro è mutilato, e non basta la vicinanza per fare uno. E non basta il dire, non basta la parola per sollevarci da tanto peso, per liberarci dal giogo della caducità e recare salvezza, e nondimeno è la parola, quella poetica in particolare, a insistere e resistere, e a cui il poeta affida tutto il suo sentire, la sua sconsolata ma irriducibile e incessante invocazione perché l’uomo, la natura, la notte e il mondo, la vita e il suo canto trovino respiro e risonanza, la leggerezza del palpito che s’invola.
Una scrittura, quella di Guglielmin, che non disdegna di prendere corpo e utilizza tutti i sensi per dire più efficacemente e far sentire l’anelito e il dolore, le urgenze che intimamente premono e le croste che comprimono, il desiderio dell’incontro con l’altro e la consapevolezza del limite. Una poesia solida e densa, i cui versi sono memoria e matericità di un vissuto, un distillato di vita e, insieme, un interrogarsi sincero e un intersecarsi continuo tra poesia e vita.
Ivana Cenci
Oceano e Teti
1
a che cosa pensa il piede
sull’erba e il cuore a che cosa
la bocca e ogni più bella parola
e la poesia quando canta morte
fuggi da lei... a che cosa pensa
la sera?
1
what does a foot on grass
think about and the heart what
the mouth and every finer
word and poetry when it sings death
flee from her… and
the evening?
2
cos’altro chiedere a questa rupe
se non parole a capocollo e il torto
fiume che ci sgoli e donne
forti nel parto e moti e amori senza
tregua e la calma infine
d’un mare blando dove ristagni il branco
o schiumi?
2
for what is there to ask on this rock
if not to tell the painful truth, the twisted
river that throttles us and women
strong in childbirth and rising and love without
respite and at last the calm
of a gentle sea where the pack grows sluggish
or foams?
3
se pretendi il salto
e l’elmo o quella forza
che dia il frutto
chiaro della mano
se reclami l’opera e l’intero
se scrivi a caso o spiovi
fino alla pozza o al buio
se incidi ed espelli se sei terra
cioè pane cioè bocca e cieco
t’infuochi se sei palmo
sospeso tra nero e astro o punto
se sei punto o covo
io che in me batti e sporgi fuori
e parli e vedi e scampi
al vuoto «dove comincia - chiedi -
dove finisce io dove finisco
se sono salto ed elmo e palmo
se parlo e ovunque muoio?»
3
if you take the leap
the helmet, the might
that yields the clear
fruit of the hand
or this: the work, the entirety
or if you write, carelessly, or run
down to the pool or in the dark
if you cut in, drive out, if you are earth
that is bread, that is mouth, and blind
you become red hot, if you are palm
suspended between black and star or point
if you are point or lair
then I – you beat within and reach out from
and talk and watch and flee
the void, you ask «Where does I begin
and end, where do I begin
if I am leap and helm and palm
if I speak and everywhere die?»
La Rive / I nomi
0
a capo dei nomi scavi
ancora nei polmoni di dio
cieca per troppa luce
e aperta ad una lingua mortale
slabbrata ai margini dei suoni
come debussy o la voce
che resta abbandonata all’aria
nascendo
0
where the names start you dig
still in the lungs of god
blind from too much light
open to a mortal tongue
gaping at the margins of sound
like Debussy or the voice
that hangs abandoned in the air
as it is born
1
si dà il lampo, infatti
nella brocca in cui cresci, e festa
dissemina il tempo per gli amici sul prato
sotto chiave è l’avvio:
buona la pace di chi siede e l’ombra
di atene in ogni cosa
ecco mettiti qui, a lato del libro, e scendi
se puoi, là dove s’increspa la gioia
si dice amato chi ne tiene a balia la piega
1
the flash yields, in fact
in the jug you’re growing in, and party
scatters time for the friends on the grass
the start is under key:
good the peace of he who sits and the shadow
of athens in everything
here, come here, beside the book, and go down
if you can, where joy gathers
you’re loved, they say, if you can draw out its folds
2
e se resiste, lei, è per legàti e presti, è per la musica
messa in rima al corpo
con suo padre sul dorso delle mani, e già stato
che invecchia in riva ai nomi
scrive un libro di scorta, lui, ma da lontano
non vedi che tronchi, bronchi
o l’agra malattia che fa la parola guerra
quando nasce dalla pancia
e la parola pancia, se come oliva o noce
sguscia dalla bocca:
cede il bianco scrosciare del fosforo
la lingua
alleva l’agnello al chiodo
2
and if she resists, it is for the presto and the legato
it’s for the music in rime with her body
with her father on the back of her hands, he’s already
been the one who ages by name-side
writes a spare book, him, but from afar
all you can see are trunks, branches
or the sharp harsh sickness that makes the word war
when belly-born
and the word belly, if like olive or nut
it slips from mouthshell:
yield the white phosphorus downpour
the tongue
lifts the lamb up to hang
3
il volo sul ramo che non regge
o la sillaba, che compie il suo mestiere
ma è un diverso stare sulle punte, se poesia
nata dal guscio che si frange, sfanta
al peso delle cose.
anche la madre
fatica nella gabbia, o ruota
al bar della stazione, ma è un diverso
stare sulle spine, appunto
un salto, che alla palpebra non nuoce
3
flight on branch that does not bear
or syllable that fulfils its task
but is another way of standing on tiptoe if poetry
born from the shell that breaks, remains undone
at the weight of things.
the mother, too,
toil within cage, or wheel
at station café, but is another
different way of standing on thorns, really
a leap that leaves the eyelid unharmed
Da La distanza immedicata, Le Voci della Luna, Sasso Marconi, Bologna, 2006.
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