Arte e dintorni
Longobardi. Un popolo che cambia la storia
09 Settembre 2017
 

Pavia torna capitale del regno longobardo, ospitando la prima tappa di una importante mostra che fa il punto sulla grande stagione vissuta dall’Italia tra VI e l’VIII secolo, quando il popolo di Alboino acquisì il controllo di un’ampia porzione dei suoi territori. Una stagione cruciale, che ebbe significativi riflessi politici, economici e culturali e che l’esposizione documenta alla luce delle più recenti acquisizioni.

Il titolo dell’importante mostra (catalogo Skira) aperta fino al prossimo 3 dicembre nelle Scuderie del Castello Visconteo di Pavia è Longobardi. Un popolo che cambia la storia”, a Cura di Federico Marazzi e Gian Pietro Broglio. Si tratta di un evento culturale di grande rilievo, per il quale quasi 100 musei hanno prestato le loro opere. I manufatti esposti sono 300 e ci sono voluti due anni di lavoro. Le otto sezioni della mostra raccontano (in un allestimento accattivante curato da Angelo Figus) due secoli di storia durante i quali Pavia fu capitale del Regno. Sono 32 i siti e i centri longobardi rappresentati, 17 video originali e le installazioni multimediali, 58 i corredi funebri esposti. Tra le opere più interessanti in esposizione, il più antico dei codici contenente l’Editto di Rotari, le monete coniate dai singoli ducati, gli scheletri di cavallo e due cani dalla necropoli di Polignano Veronese, i corni potori di vetro da Cividale e Castel Trosino e la spada longobarda simbolo della mostra.

Scelta dagli Ostrogoti come seconda capitale dopo Ravenna e allora dotata di architetture pubbliche eccellenti, Pavia viene espugnata nel 572 da Alboino, dopo un assedio lungo tre anni; seguono due secoli (cederà all’assedio dei Franchi di Carlo Magno nel 774) nei quali la città è baricentro delle vicende politiche, economiche e amministrative più rivelanti del regno, che la narrazione di Paolo Diacono, le pur scarse testimonianze materiali, ma anche – e soprattutto – la tradizione, le leggende e le memorie locali, i toponimi tuttora ricordano: dell’emanazione dell’Editto di Rotari al recupero e traslazione di sant’Agostino minacciate dai Saraceni, alle cospicue fondazioni religiose destinate a cenotofi di re e regine.

All’eccezionale fortunata ricchezza dell’immagine di Pavia capitale del regno longobardo corrisponde, oggi, un avvilente povertà di sussistenze monumentali – tale da aver precluso l’inserimento della città nella rete UNESCO dei siti longobardi – così che ben si può attribuire a Pavia quell’appellativo di «straordinaria Atlantide sommersa» da riferirsi a un prezioso tesoro d’arte sopravvissuto solo a livello sotterraneo nelle cripte, oppure tuttora celato da substrati, inglobato in murature, o reimpiegato in nuove architetture, in attesa di essere riscoperto e disvelato.

Non solo le devastazioni belliche e gli incendi, ma la splendida fioritura romanica dopo il Mille – con la necessità di recuperare spazi e materiali pregiati per le costruzioni – e poi la crescente insofferenza estetica per espressioni d’arte «barbariche», almeno sino al romanticismo, avevano determinato il progressivo svanire delle testimonianze materiali di Pavia longobarda.

Così, solo per ritrovamenti fortuiti e rarefatti nei secoli e per episodiche campagne recenti di scavo archeologico, sono stati riportati alla luce elementi architettonici, monili, lapidi ed epigrafi funerarie, nelle raccolte civiche e allestiti nelle sale museali del castello visconteo. Sono reperti di straordinaria qualità – tali da ripagare in parte per la loro unicità ed eleganza, pur nelle ridotte dimensioni, la perdita di strutture monumentali – che per l’appunto sono pervenute ai musei o dall’occasionale riemersione durante interventi urbanistici o dal privato collezionismo antiquario: si tratta, perlopiù, di manufatti da riferire alla celebrazione regia, encomiastica e legati ad ambienti aulici e di corte, che devono la loro sopravvivenza al reimpiego in contesti successivi, in qualità di stipiti, di soglie, di chiusure di pozzi.

Era stato il marchese Luigi Malaspina, colto e illuminato raccoglitore non solo di pittura italiana dal Medioevo al neoclassicismo ma anche di testimonianze artistiche locali, munifico fondatore dei musei pavesi, a voler salvare dall’oblio e dall’incipiente distruzione alcune lapidi tombali di re e regine longobardi tumulate in chiese sconsacrate e soppresse in età giuseppina.

Sotto il portico della sua residenza pavese, il nobile aveva allestito un’ampia raccolta epigrafica di varie età, tra cui l’epitaffio ritmico che celebra Cuniperto, «re prospero e prestante che l’Italia piange», acquistato entro il 1819 e proveniente dal monastero di S. Salvatore dove – come recita l’epitaffio – quiescunt in ordine reges. Ma il “colpo” collezionistico di Malaspina fu nell’acquisizione, nel 1832, di pezzi scultorei dal monastero femminile di Teodote (o della Pusteria): l’iscrizione funebre di Teodote e quelli che – per interpretazione dei cugini Defendente e Giuseppe Sacchi – erano stati riconosciuti come i due lati lunghi e quello corto del sarcofago a cassa della giovinetta concupita e violata dal re Cuniperto, cioè i due celebri plutei con i draghi, con i pavoni e con l’agnello.

Oggi la mostra “Longobardi. Un popolo che cambia la storia” è ancora l’occasione per ripensare in parte l’esposizione e ulteriormente valorizzare il patrimonio museale, nel senso sia di esaltare attraverso la luce la preziosità e la raffinatezza di ciascuno dei pezzi esemplari di scultura decorativa e di oreficeria, sia di comunicare in modo più efficace e consapevole con il visitatore, favorendo – grazie anche alla stru­men­ta­liz­za­zio­ne informatica e alle ricostruzioni virtuali – la conoscenza dei contesti architettonici di provenienza e inducendo a immaginare, suggestivamente, la forma urbana di Pavia tra la metà del VI secolo e la fine dell’VIII secolo.

 

Maria Paola Forlani


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