Faceva caldo, mancava l’aria. Le ginocchia mi facevano male e avevo la nausea. La ressa dei fedeli creava un movimento ondivago mentre gli occhi mi si annebbiavano. I canti dei pellegrini e le urla delle donne che chiedevano grazie alla Madonna rimbombavano nella chiesetta tappezzata di ex voto e nella mia testa ovattata. Viva viva, sempre viva…
– Padre, sto per svenire.
Dalla grata impregnata di aliti che sapevano di lunghi digiuni e denti cariati proveniva un respiro affannoso che mi veniva soffiato in faccia insieme a parole cincischiate, spruzzate di saliva rovente.
Tentai di sollevarmi, ma ricaddi prostrata col capo tra le mani.
E continuò la tortura, di qua e di là della grata.
– Quante volte – la domanda, che non era una domanda, ripetuta in un sussurro che s’alzava di tono e ricadeva in un gemito.
Le tempie mi battevano e il sudore mi colava a gocce dalle ascelle. Tutti mi stavano guardando, ne ero certa. La fila di gente diretta al confessionale si era bloccata e mi premeva addosso malevola. La vergogna mi risaliva dalle viscere con un sapore di piombo nella bocca arida.
– Quante volte – insisteva la voce, schiaffeggiandomi le guance di cera e di porpora.
E altre parole provenivano molli e legnose dalla grata, e mi colpivano come frutta marcia lanciata con spregio. Parole mai sentite prima e di cui non conoscevo il significato: coito interrotto, contraccettivo, contro natura, masturbazione. Parole che mi si piantarono come chiodi nei punti più dolenti di una femminilità forte e sconosciuta.
Facendo forza su me stessa riuscii a sollevare un ginocchio e abbrancata con le mani alla mensola stavo provando a rizzarmi in piedi, quando la voce, rauca e singhiozzante, intimò:
– Aspetta, ti devo ancora assolvere e dare la penitenza. – Il fiato mozzo che perveniva dalla grata mi assalì come una ventata fetida e per sottrarmi ad esso trovai la forza di alzarmi e scappare fuori, senza curarmi della muta riprovazione di tutta quella gente in attesa di inginocchiarsi su quel legno infuocato e aprire l’animo a un povero diavolo martoriato dai suoi stessi forconi.
Corsi a perdifiato lontano dal santuario e dai canti e dalle urla e dall’odore di cera e d’incenso, e mi rotolai in un prato ancora umido di rugiada, piangendo e pregando a modo mio quel dio di cui tutto mi era stato detto e tutto mi rimaneva oscuro. Un gregge pascolava nei pressi, il grosso cane pastore mi puntava a distanza e non m’incuteva alcun timore, era lì solo per fare la guardia e non per aggredire senza motivo.
Era una domenica di luglio all’inizio degli anni ’70. Ero sposata da dieci anni e avevo tre figli. Mi risuonava nella testa il comandamento che quel giorno non avrei osservato: Ricordati di santificare le feste.
Maria Lanciotti
Alla ricerca della spiritualità
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