Da questo racconto teatrale del 1944 si desume in modo chairo – e non so quanti l'abbiano detto prima di me – che a Cuba, grazie a Virgilio Piñera, il teatro dell'assurdo è arrivato prima di Ionesco e di Beckett, perché sia La cantarice calva che Godot sono anni 50. (Ndt)
Da cima a fondo la pensione sembrava un formicaio. La dama dalle carni opulente aveva chiamato il portiere per comunicargli che poteva andare a riferire ai vari ospiti che quella sera avrebbe esibito il suo album di fotografie. Il portiere aveva già organizzato un’attività commerciale basata sui posti a sedere intorno alla dama, e andava di porta un porta proponendo i posti più strategici a certi ospiti della pensione che fumavano sigarette bionde o acquistavano occhiali da sole dotati di grandi lenti color verde scuro e la montatura d’oro bianco. Ma il portiere doveva prima comporre il suo volto. Il fatto è che si emozionava mentre annunciava l’evento dell’album; questo gli portò grandi dispiaceri, perché i vicini, rendendosi conto che sarebbe accaduto qualcosa di anormale (e la sola cosa anormale che poteva succedere era proprio l’esposizione dell’album), si precipitavano a frotte verso il luogo dove la dama avrebbe esibito il suo album, occupando i posti migliori molto prima che cominciasse la riunione e senza pagare assolutamente niente per essi. Chiaro che la dama ignorava l’attività commerciale del portiere: avrebbe sospeso subito i suoi festeggiamenti e le frequenti esibizioni del suo album; per quel motivo gli ospiti poveri, anche se si trovavano in una situazione evidentemente svantaggiosa rispetto ai posti a sedere, non le confidavano la scandalosa attività commerciale del portiere; una sporca attività commerciale che macchiava la purezza di tale evento. La dama si meravigliava che gli ospiti più poveri occupassero gli ultimi posti a sedere solo mezz’ora dopo che lei aveva confidato al portiere (tempo che il portiere si prendeva per vendere i posti migliori agli ospiti più importanti) che la sera stessa avrebbe esibito il suo album di famiglia e di viaggi, per il fatto che dovevano attendere molto tempo, visto che la riunione avrebbe avuto inizio alle cinque di sera ed era stata annunciata alle otto di mattina, ma loro la tranquillizzavano confidandole che preferivano quei posti lontani per la stessa ragione che altri preferivano i più vicini. Perché sicuramente esisteva una causa superiore a tutte le divergenze, a tutti i dispiaceri e a tutte le macchinazioni, ed era l’assoluta necessità di vedere l’album. Per esempio, una volta che il portiere annunciava che i migliori posti erano già stati venduti, nessuno degli ospiti più modesti avrebbe osato occuparli. Chiaro che avrebbero potuto sedersi in qualsiasi posto, ma il timore di provocare uno scandalo che con ogni certezza avrebbe offeso la padrona dell’album li faceva sopportare questa suprema umiliazione che ogni povertà impone.
Si ingannerebbe chi credesse che l’esibizione durasse mezz’ora o al massimo un’ora. Assolutamente: a volte occupava intere giornate; mai meno di un intero giorno, ossia, dal momento in cui la dama apriva l’album fino al compiersi di ventiquattro ore di esibizione continua. Ma con esattezza quanto tempo sarebbe durata la riunione, nessuno avrebbe potuto prevederlo. Per esempio, se la dama mostrava quella foto vestita di bianco, passeggiando alla luce della luna tra le rovine del Colosseo, durante il suo viaggio in Italia nel 1912, di sicuro questo episodio avrebbe consumato un tempo di tre giorni con le loro rispettive notti; quindi, una foto poteva meritare una rapida occhiata da parte della dama (e, come si può presupporre, da parte degli ospiti), come poteva occupare un tempo equivalente a sei mesi, durata massima raggiunta nel corso delle diverse riunioni che erano state celebrate.
Mi stavo rendendo presentabile con grande attenzione – quel giorno avrei cominciato il mio nuovo impiego come lettore alle dipendenze di un ricco anziano cieco e volevo fare la miglior impressione possibile –, quando sentii bussare con violenza alla porta. Mi sembrò una mancanza di riguardo nei confronti degli ospiti e in particolare verso di me, che mi ero trasferito da appena un giorno. Andai ad aprire, intenzionato a chiedere spiegazioni esaurienti alla persona che con tanta scortesia mi infastidiva. Una persona, che subito dopo riconobbi come il portiere, si fece avanti prima che avessi finito di aprire bene la porta, dicendomi con voce rotta per l’emozione: “Le ho riservato il miglior posto”. “Quale posto?”, dissi io, togliendo le sue braccia dal mio petto. “Sì, il migliore – rispose lui, senza far caso alla mia domanda –, quello che sta alla destra della dama, perché alla sinistra siede il suo sposo e per questa circostanza nessuno potrebbe occupare tale posizione. Sa, lei lo fa sedere al suo fianco perché nel momento in cui, piegando la testa, gli dice: Non è vero, Olegario?, Ti ricordi, Olegario?, lui, senza dire una parola, possa muovere la testa in senso affermativo”. “Ma mi resta soltanto il tempo – gli risposi – per prendere l’autobus e raggiungere il mio nuovo impiego”. “Nessuno qui pensa di andare al lavoro – disse il vecchio. – Tutte le attività vengono sospese quando lei annuncia una delle sue esibizioni”. “Quali esibizioni?”, dissi macchinalmente. “Ma se glielo sto spiegando e non mi presta la dovuta attenzione! Sono venuto a offrirgli il miglior posto; quello che sta alla destra della signora, e lei, come se tale cosa… Sa che qui c’è un sacco di gente disposta ad assassinarlo per occupare quel posto?” “Ma mi resta giusto il tempo per raggiungere il mio nuovo impiego. Non devo indugiare oltre. Questi ciechi sono molto puntigliosi, e, inoltre, il primo giorno uno deve essere puntualissimo”. L’ultima frase si perse in un rumore che si avvicinava come un animale feroce. Era il suono caratteristico che producono molti piedi che scalpitano; una cosa come il suono di infinite bocche che mormorano angosciosamente. “È la gente della gradinata – mi disse il vecchio senza girare la testa verso la porta, dove mi ero precipitato –, è la gente della gradinata. Siccome non possono pagare si affrettano a occupare i loro posti; inoltre, ci sono sempre invitati esterni e questo rende più difficile impossessarsi delle sedie non numerate. Più presto riescono ad arrivare, a minor distanza dall’album riusciranno a posizionarsi”. Nel frattempo si era girato a guardare la sfilata. “Guardi quella ragazza…, quella che sta alla testa del gruppo! L’ultima volta, siccome non riuscì a guadagnare un posto e la riunione durò due mesi, perse un gran numero di vedute importantissime; si figuri: ogni quattro o cinque ore doveva riposarsi e sdraiarsi sul pavimento, cosa che le provocò un’amarezza così grande da ammalarsi gravemente”. “Ma io ignoravo che in questa casa vivesse così tanta gente. Guardi, sono passati già più di cento ospiti”. “Sì – disse il vecchio –, e questo senza contare i posti in abbonamento che sono una quarantina”. “È inconcepibile – mormorai – che per vedere un semplice album di fotografie la gente faccia simili sacrifici!” “Oh, questo non è niente! - Rispose il vecchio. – Per esempio: se veniamo a sapere che la riunione durerà mesi gli ospiti della gradinata mangiano ogni due giorni e danno corso alle loro necessità naturali nello stesso luogo in cui si trovano. A volte la gente del quartiere si è lamentata per le condizioni igieniche; può ben immaginare, l’odore che esce dalla casa, anche se viene tenuta ermeticamente chiusa, è insopportabile. Ma tutto è poco – e prendeva fiato –, ogni sacrificio è poco in confronto al supremo piacere di contemplare l’album della signora e ascoltare le sue spiegazioni!” “Ma un album – insistetti con una certa enfasi –, un album non è un motivo sufficiente perché un’intera pensione si esponga ai pericoli della fame e della peste!” “Allora, la vuole o no questa poltrona? – disse il vecchio facendo cenno di uscire –, la vuole o no?” “Quanto costa?” “Cinque pesos – mi rispose. – Potrà recarsi al suo nuovo impiego, ma, certo, alle cinque, capito?, alle cinque dovrà essere ben piazzato nella sua poltrona”. “Ecco qui i cinque pesos – e gli misi in mano un biglietto da cinque. – Ma mi dica: che interesse reale può avere l’esposizione di un album di fotografie?” “Si è reso conto – disse il vecchio, prendendomi per i polsi e mettendomi davanti alla porta della stanza, che era sormontata da un arco di vetri multicolori – della bellezza di quei vetri? Sono dell’epoca coloniale. Quando non ho niente da fare, esco per strada a cercare porte con vetri colorati. Sembra che ci sia anche altra gente che li cerca”. “Sì – dissi –, è un’operazione piacevole uscire con il solo obiettivo di cercare vetri colorati. Ma mi dica: potrebbe distinguere tra una vetrata antica e un’imitazione moderna?” “Mio zio usava un dentifricio di quelli che ormai non si vendono più, morì con il supremo piacere di una dentatura impeccabile”. “Sì, sì, proprio così, una dentatura impeccabile; ma guardi un po’: mi restano solo alcuni denti dell’arcata superiore – li misi bene in mostra con la bocca aperta. – Potrebbe darmi la formula di quel dentifricio?” “Sono dieci anni che mi faccio beffe della custode incaricata di sorvegliare il piano. Ogni giorno la vedo nuda; se mi avesse beccato, addio portiere!” “E tutto ciò che cos’ha di eccezionale?” “Non posso più mangiare di sera il mio panino con la porchetta; lo stomaco non mi segue”. “E perché non compra un digestivo?” “Lei sa che non ho mai usato calze?” “Alla sua età, è una vera imprudenza! Non vede che siamo circondati dall’umidità?” “Com’è brutta quella tavola! Ho un flaconcino di smalto. Ora vedrà come diventerà…” “Ma il problema è che il bimbo che sta accanto passa tutta la notte a gridare”. “Eh, che le succede!... – gridò furibondo il vecchio. - È matto? Io non le ho parlato di nessun bimbo. Le dico molto serenamente che possiedo un flaconcino di smalto”. “Ma il fatto è che quel bimbo non mi lascia dormire per tutta la notte”. In quel momento si udì lo sgradevole suono di un campanello. Il vecchio si scagliò alla porta. “È la padrona – disse. – Non manchi; ormai lo sa… alle cinque”.
Erano appena le dieci. Prendendo un taxi sarei arrivato puntuale al mio nuovo impiego. Lo stavo per fare quando sentii bussare di nuovo alla porta. “Avanti!” – dissi abbastanza infastidito da quella nuova interruzione. Vidi entrare una mulatta sui trent’anni con un bimbo in braccio che si gettò su di me. “Andiamo, Fito, dì al signore di non piangere più! Fito, poveretto. Dì al signore che no, che no, che no. Uff, che buono!...” Mentre parlava con quel linguaggio per me poco comprensibile, lanciava il bimbo in aria per accoglierlo di nuovo tra le sue braccia; lo baciava, lo ricopriva letteralmente di saliva. Finì per mettermelo in braccio. “Signora – dissi –, devo andarmene; farò tardi al mio nuovo impiego”. “Ah – disse senza far caso alle mie parole –, se lei sapesse la storia di questo bimbo! Suo nonno me lo diceva sempre: Minerva, quell’uomo non fa per te. A quel tempo io stavo molto bene; la comare di mia nonna mi aveva sistemato nella casa delle Pita. Sì, uomo, le Pita...; che una delle ragazzine se ne andò con un mulatto e dette un tremendo scandalo. Erano tre donne: Malvina, Julia ed Elivia, che è quella che se ne andò con il mulatto. E guardi che quella madre soffrì!... Come lei può vedere, se una nasce con la testa bacata non serve a niente l’esempio materno. Ho conosciuto molte ragazze messe al mondo da madri puttane che si sono comportate come spose modello. Io no, l’uomo che mi piacque andai a dirlo a mammina e ci sposammo; sì, perché noi ci sposammo in Chiesa con tutti i sacramenti. Sì, io mi ricordo che portavo per il matrimonio civile un vestito di buratto azzurro che mi fecero le López. La gonna era a forma di campana con svolazzi di tulle bianco. La camicetta era stupenda: aveva cinque giri di nastro ricamato a mano”. Rimase un momento pensierosa e subito dopo aggiunse: “E il cappello?” “Per favore – la interruppi –, me lo descriverà un altro giorno”. E le misi il bimbo in braccio. “Ah, no; non va bene. Lei deve sentire com’era quel cappello – e a sua volta tornò a mettermi il bimbo in braccio. – Era un modellino dell’inverno passato che Camacho, il cappellaio, non era riuscito a vendere. Me lo dette per niente, e allora le mie zie, che non per niente... ma hanno delle mani!, lo fecero diventare bellissimo. Lo trasformarono così bene che nessuno l’avrebbe riconosciuto. Comprammo paillettes e con quelle ricamarono tutta la parte alta copiando delle farfalle che erano esposte nella vetrina dell’Arte. Oggi non ho più uno straccio da mettermi; ma allora, amico mio, avevo vestiti a dozzine. Perché ascolti: non è per vantarmi, ma a me non è mai mancato niente”.
Frattanto, si era seduta, certo per stare comoda e poter continuare le sue spiegazioni. Visto che stava a due passi dalla porta poteva – ed era proprio quel che stava facendo – spingere con il suo piede destro l’anta, indicandomi con quel segnale che aveva ancora molte cose da confidarmi e che non avrei dovuto abbandonare la stanza. In quel momento il bimbo cominciò a gridare e si agitava tra le mie braccia cercando di scappare. Io guardai la madre. “Ha fame – mi disse –, poveretto! Che vuole il mio porcellino?” A un tratto si fece molto seria e mi disse: “Me lo promette? Dica di sì, che me lo promette”. Quindi, prendendomi per il bavero della giacca, sussurrò: “Sì? Farà il bravo? Ascolti! Non cerchi di burlarsi di me…” Mi guardava fisso. “Menzogna! Lei se ne andrà; glielo sto leggendo negli occhi… Vediamo: mi guardi senza sbattere le ciglia! Perché non può sostenere il mio sguardo?...” Io la guardai negli occhi; avevano un’espressione così stupida che dovetti abbassare i miei. “Lo vede! – mi disse –, lo sta vedendo?... Lei se ne andrà; e io devo finire di narrarle i miei rapporti con il padre di Fito”. “No – le dissi allora –, non me ne andrò. Che vuole da me?” “Bene, non se ne vada, eh?... Vado a cercare il biberon di Fito. Torno in un attimo”. Aprì la porta e subito la sentii ciabattare nella sua stanza. Il bimbo intensificava le sue grida. Erano più delle undici, decisamente, sarei arrivato tardi al mio nuovo impiego. Avrei potuto lasciare il bimbo sul letto e senza fare il minimo rumore svignarmela nel corridoio. Certo, sarei arrivato al mio nuovo impiego con due ore di ritardo, ma una buona scusa ottiene sempre il suo effetto; e io potevo dire che un incidente imprevisto…; che il giorno successivo avrei concesso un tempo doppio di lettura… Inoltre, non potevo avere alcun rimorso nei confronti di quella donna, perché anche se era vero che le avevo promesso di non andarmene, da parte mia era stata una promessa meccanica; io non la conoscevo e niente mi legava a lei, né al suo tremendo moccioso. Ma i miei progetti furono inutili; la vidi entrare di nuovo portando un biberon che agitava in alto. “Bene, non mi ha ingannato! Ora sì che mi potrà guardare senza sbattere le ciglia. Vuole dare lei il latte a Fito? Si accomodi su questa sedia a dondolo – e mi indicava una sedia a dondolo che stava all’altro lato del letto; io feci una debole resistenza, ma lei mi spinse e riuscì a farmi mettere a sedere. – Così, così! Il bimbo deve posare la testolina sopra il suo braccio sinistro; ora con la mano destra afferri il biberon. Ecco! Guardi che lei è proprio intelligente!...” Quindi trascinò proprio di fronte alla mia l’altra sedia a dondolo. “Ora possiamo continuare la conversazione”. Fece una pausa che io utilizzai per ascoltare il rumore che faceva il piccolo mentre succhiava il biberon. “Dove ero rimasta? Le avevo già detto com’era il cappello? Sì, sì – disse tappandomi la bocca, anche se io non avevo fatto alcun gesto per aprila –, sì, sì, questo l’ho già raccontato. Devo ancora dirle, invece, di mio marito. Ecco, dicano quel che vogliono, ma quando ci sposammo a me non mancava niente. La mia camera era molto bella. Basti dire che avevo un set da toelette d’argento, e Alfonso aveva persino un set di bottoni d’oro a quattordici carati per i pantaloni. E in ogni caso non eravamo ricchi, ma vivevamo molto bene. E non è perché fosse mio marito, ma Alfonso era un idraulico formidabile. E non affogava in un bicchier d’acqua:… se io volevo un vestito nuovo: ecco il vestito; se arrivava il circo; compravamo le poltrone, non la gradinata, ha capito? Pol-tro-neeee; se desideravo un paio di scarpe: ecco il paio di scarpe. Capito!: e fedele, sincero, rotondo, così – e mi faceva vedere il cerchio che formava con il suo pollice e il suo indice. – Ma dalla sera alla mattina cambiò. Sì, cambiò la situazione; tutto si ridimensionò”. Qui si fermò e si mise a guardare fissa il bimbo che s’era addormentato. Approfittando di questa pausa le evidenziai la necessità in cui mi trovavo di uscire subito. “No, no – mi rispose, rianimandosi immediatamente da quel breve istante di raccoglimento, – non ho terminato. Andiamo… lei ha creduto che io avessi finito! Che sciocco! Ma Alfonso si uccise; sì, perché si uccise. Lei non lo sapeva? Tutto il quartiere lo sa. Non è ancora un anno: io avevo appena dato alla luce Fito… Guardi che lasciarmi schiava di questo pacchetto!
E lei conosce la questione dell’album? Guardi, quel farabutto del portiere è un ricattatore. Sua figlia, un anno fa se n’è andata con il frigorifero. Chi avrebbe mai detto che Alfonso si sarebbe ucciso!... E le piacerà vedere l’album? Secondo me quella donna, sa, quella dell’album, è mezza matta… E Alfonso si uccise sparandosi in bocca davanti a me. Eh, che le pare? Molto simpatico: spararsi in bocca. Lei, sta sognando? Perché non grida? Io gridai quando lo vidi pieno di sangue. Vediamo, gridi! Quando lui si sparò io gridai così – qui tese la bocca ma senza lasciar sfuggire il grido. – Lo vede? Lo sta vedendo? Io aprii la bocca; tornai a chiuderla; tornai ad aprirla e gridai ancora. Si rende conto? Vediamo, apra la bocca e gridi proprio come gridai io quando Alfonso si sparò in bocca! Guardi che lei è proprio sciocco! Non voler gridare. Andiamo, Fito, il signore non vuole gridare! Ah, dimenticavo! Potrebbe darmi un fiammifero?” Mi ripresi e andai a cercare la scatola dei fiammiferi. Nel frattempo lei si mise a ispezionare il mio guardaroba. “Non ha molti vestiti. Ba’, sicuro che li ha nascosti. Un giovane come lei deve sempre avere molti vestiti. Come sta a calze? Ah, un ritratto… È della sua fidanzata? No? Di sua sorella? Bene – e prese alcuni fiammiferi dalla scatola che io le porgevo –, adesso sa dove trovarmi… non vuole baciare Fito? Se durante la notte ha un dolore di stomaco bussi qui – si diresse alla parete che portava alla sua stanza –, bussi così – e dette due colpi sulla parete divisoria di legno. – Adesso lo sa: non sopporti dolori per gusto. Mi busserà? Me lo promette? Bene, addio”.
Mi gettai sul letto. Erano quasi le una. Ormai non sarei più andato al mio lavoro. Neppure sarei sceso a pranzare. Mi stavo per togliere la giacca quando sentii che Minerva mi chiamava attraverso la parete. “Che vuole adesso?” Le dissi in modo abbastanza scortese. Lei mi rispose molto agitata: “Si avvicini alla porta, così vedrà la donna di pietra, la portano lungo il corridoio in una sedia a rotelle! Presto che sta arrivando!” La sua voce non si udì più; allora sentii che Minerva conversava con qualcuno; mi stavo per affacciare quando bussarono delicatamente alla mia porta. Aprii subito; un uomo maturo mi disse con estrema cortesia: “Lei è il nuovo ospite?” “Sì, sono io il nuovo ospite. In che cosa posso servirla?” “La signora desidera parlare con lei”. “Ah, sì, la signora!”, gli risposi senza mostrare il benché minimo stupore, e uscendo dal vano della porta dove mi trovavo seminascosto. “Lei già mi conosce? – disse una voce femminile dal sorprendente tono grave. – Sono proprio così nota?” Era la voce della donna di pietra che Minerva mi aveva annunciato dalla parete. Mi avvicinai alla sedia a rotelle e senza rispondere alle sue domande mi misi a esaminarla accuratamente. Al primo sguardo mi resi conto che non era seduta ma distesa lungo una tavola inclinata che sembrava collocata sopra la sedia. Le sue braccia, completamente pietrificate, cadevano pesantemente come due bastoni lungo il suo corpo. Ma la cosa più straordinaria era la direzione della voce, impostata dalla rigidità del collo. Trovandomi in piedi di fronte a lei, udivo la sua voce lateralmente, perché a causa del male era rimasta con il collo piegato verso sinistra. “Volevo chiederle un favore – disse. – Il portiere mi ha parlato di lei”. “Sì – le risposi –, in effetti, il portiere mi conosce; è venuto qui per la questione dell’album”. “Chiaro, perché di quello si tratta! Lei ha il suo posto alla destra della dama, e io sono venuta a pregarla di cedermelo”. “Ma – le risposi – ho pagato cinque pesos per quel posto”. “E a me restano appena cinque mesi di vita – disse con una forza incredibile. – Quando la calcificazione raggiungerà il petto sarò una donna dell’altro lato… Lei negherebbe una grazia così piccola a una creatura in articulo mortis?” “Lei è sposata?” “No, sono nubile”. “Età?” “Se la calcificazione me lo permette, compirò quarant’anni tra sei mesi”. “Ha avuto qualche amore nella sua vita?” “M’innamorai di un carbonaio che era bello come un dio”. “E lui, la corrispose?” “No, ma riuscii a farlo dormire con me. Una notte scoprì che non avevo più movimenti nel corpo, e in preda al terrore abbandonò il mio letto”. “Lei crede in Dio?” “No, credo nella pietra”. “Lei prega?”. “Sì, alla pietra perché non m’invada con troppa fretta”. Aggiunse subito: “Non sia tanto ingenuo; la sola cosa certa è che morirò entro cinque mesi. Dopo, vedremo… Non le pare?” “E come fa per defecare?” “Alberto! – si rivolse a uno dei domestici –, mostri al signore la tavoletta…” Allora il domestico che rispondeva al nome di Alberto si chinò, scoprì due piccoli paletti di una tavoletta che si trovava proprio sotto il sedere della signora, e mi spiegò minuziosamente che, mettendo un recipiente, la signora poteva esperire con estrema facilità le sue necessità naturali. “E lei non teme che qualche insetto…”, dissi con vivo interesse. “Nessuno, non lo sentirei! Vediamo, Alberto, pizzicami forte da qualche parte – disse, e voltandosi verso di me –, lei guardi bene in che parte mi pizzica”. Alberto la pizzicò forte in una coscia. “Adesso, signora – disse il domestico –, adesso l’ho pizzicata”. Lei si voltò di nuovo verso di me. “Ha notato, cavaliere, la più piccola smorfia di dolore sul mio volto? Non ho sentito niente. Ha mai pizzicato una statua?...” “Qual è la cosa che più desidererebbe possedere?”, le dissi ridendo con palese nervosismo. “Uno non desidera niente – mi rispose – riceve solo sentenze”. “Di morte?”, dissi. “O di vita”, sottolineò. Girai la sedia e guardandola intensamente: “Si rende conto dell’immensa felicità che significa non essere attaccato dalla pietra?” “Si rende conto dell’immensa disgrazia che significa essere attaccata dalla pietra?” mi disse guardandosi le braccia, e aggiunse con grazia infinita: “Vuole imparare il mio ballo?” “Che ballo? – risposi, incuriosito dal suo tono reticente –, che ballo?” Ma niente mi rispondeva, perché ormai si allontanava sulla sua sedia a rotelle, confondendo un lieve sorriso tra le stentoree risate dei suoi due domestici.
Alle cinque ero nella sala da pranzo. Siccome avevo ceduto il mio posto alla donna di pietra, occupai il secondo da sinistra; cioè, mi trovai situato proprio al fianco del marito della dama che esponeva l’album. La sala da pranzo presentava, come si dice, un colpo d’occhio magnifico. Le sedie erano state collocate in semicerchio, e quel luogo sembrava un piccolo anfiteatro, chiuso in fondo da false colonne di cemento rivestito che facevano parte della ricercata decorazione della sala da pranzo; da colonna a colonna correvano festoni e drappeggi, foglie e frutti di pietra, tutto dipinto di un delizioso e ridicolo colore giallo. Nelle quattro pareti della sala da pranzo si vedevano appesi quadri con i tradizionali temi di cene e conviti; altri rappresentavano immensi portafrutta pieni di kaki, ananas, manghi, e anche frutti di altri paesi, come la mela e la pera, la pesca e i datteri. Una grande lampada, le cui otto braccia erano altrettanti tritoni, pendeva al centro della sala da pranzo. Io mi ero perso nella contemplazione dei suoi bronzi (cacate di mosche) e delle sue gocce (ancor più cacate) quando un silenzio repentino mi fece abbassare lo sguardo. Questo silenzio era stato provocato dalla dama dell’album che aveva appena fatto la sua comparsa. La seguiva un uomo di piccola statura e grassoccio che portava tra le sue braccia, come i sacerdoti portano la Sacra Forma nel cuscino di velluto, un enorme album di fotografie. L’album era rilegato con fasce di stoffa verde ed era rivestito con pelle di camoscio. La dama pareva avere attorno ai cinquant’anni. Vestiva alla moda del 1914, o qualcosa di simile, e portava un grande ventaglio di piume con il quale si sventolava languidamente. Una volta seduta, spiegò con voce intensa che aveva apportato alcune innovazioni al suo modo di esibire le foto dell’album. Disse che al fine di evitare l’ardente desiderio degli ospiti – concepito, anche se non espresso, per via della timidezza – di tornare a contemplare questa o quella foto, non solo aveva modificato l’ordine delle stesse, ma le avrebbe esibite a caso. Avrebbe aperto l’album in una parte qualsiasi, facendo girare il suo dito indice – naturalmente con gli occhi chiusi – sulla pagina, l’avrebbe lasciato cadere in un punto dove si trovava una foto, e proprio quella per volontà del caso sarebbe stata esibita. Infatti: la vedemmo chiudere i suoi grandi occhi e fare diversi cerchi sulla pagina aperta a caso. Tutti trattenevano il respiro. Improvvisamente lo lasciò cadere, e trascorsi alcuni secondi annunciò con voce stentorea che la foto prescelta era quella che rappresentava il momento in cui, vestita da sposa, si preparava a tagliare la torta nuziale.
“Come potete vedere – questa cosa di vedere era relativa; in realtà potevano vedere soltanto gli ospiti che stavano seduti nelle due prime file, ossia, quelli che avevano pagato –, questa foto coglie il momento in cui io, con il vestito da sposa, avendo accanto a me lo sposo prescelto dal mio cuore, e circondata di familiari e amici mi preparo a tagliare la mia torta nuziale. Non è così, Olegario?”, e si voltò con gesto affettato verso il marito. Questi mosse la testa in senso affermativo, e lei continuò: “Guardate che il cagnolino bianco che si trova accanto alla tavola dell’angolo del salone – questa osservazione intorno al cagnolino avrebbe prodotto, in un momento successivo all’esibizione dell’album, benefici incalcolabili allo spirito di quella comunità; cioè, quando ospiti ricchi e poveri si incontreranno a prendere il fresco in terrazza, si intavoleranno disquisizioni circa la vera situazione dell’animaletto nella topografia generale della foto, visto che gli ospiti ricchi potevano vederlo, ma al contrario gli ospiti poveri non potevano – non è un cane in carne e ossa. Al contrario si tratta di un cagnolino di peluche che la signora Dalmau mi regalò”. Qui fece una lunga pausa e guardò intensamente l’assemblea. “Come venni a sapere che era un cane di peluche? Vedrete: ho già detto che la signora Dalmau me lo regalò; ma se io dico semplicemente questo e non chiarisco che la signora Dalmau me lo dette proprio nel momento in cui stavo tagliando la torta nuziale, voi, sicuramente, potreste credere che io possedessi il cagnolino prima della bellissima cerimonia della torta. E invece è andata così, proprio quando sono entrata nel salone tenendo per un braccio il mio prescelto”. Qui si voltò di nuovo e disse: “Non è vero, Olegario?, e seguita da una gioventù ridente e felice (gioventù che dettaglieremo più tardi raccontando le loro rispettive vite), vidi un bel cagnolino bianco. Detti un leggero grido e mi chinai per prenderlo in braccio, mentre dicevo a voce alta in modo che potessi essere ascoltata da tutti: Che bel cagnolino di peluche!... Potrei sapere chi è il suo fortunato padrone? Immediatamente si udì un grido che rispondeva al mio, e nel quale riconoscevo la voce della signora Dalmau”. “Oh!... (questo fu il grido), cara; non è un cane di carne e ossa; no, è solo un cane di peluche che ti regalo per il giorno delle tue nozze”. Allora l’animaletto artificiale passò di mano in mano. Nel momento di scattare la foto del taglio della torta, supplicai il fotografo che avesse la bontà di mettere il cagnolino nella stessa posizione in cui lo incontrai quando feci la mia entrata trionfale nel salone. Devo avvertire che la povera signora Dalmau ci ha già lasciati da molto tempo, voglio dire che ha abbandonato questa valle di lacrime, per andare a riposare tra le braccia del nostro Creatore. Che strano! Può apparire persino buffo: la signora Dalmau, che era di carne e ossa, adesso non è niente; invece, il cagnolino che mi regalò, che non era di carne e ossa, sta ancora prestando un eccellente servizio decorativo in una delle mie étagères (scaffalature eleganti, in francese nel testo, ndt) accanto a tre bambole norvegesi. Guardate: questo è quel che resta della signora Dalmau (e metteva il dito sopra un punto che senza dubbio era l’immagine della signora Dalmau). Nessuno, vedendola così piena di salute, avrebbe pensato… Si sa che aveva un cancro al seno sinistro. Poveretta!... Farsi fotografare le causava un vero panico, ma posso dire con legittimo orgoglio che questa è l’unica foto che si fece in vita. Una vera prova di amicizia, per la quale ben sa la signora Dalmau, seduta tra angeli e santi, quanto le sono stata e quanto le sarò eternamente grata!” La vedemmo tirare fuori un fazzoletto e passarselo sugli occhi, e subito dopo il dito si posò in un punto che restava alla mia estrema sinistra. “E la ragazza dal volto raggiante?, come io la battezzai. Sì, questa che vediamo decorata con vaporosi merletti bianchi (e poneva il suo dito nuovamente sopra un punto che solo poteva essere percepito dagli ospiti danarosi). Devo fare una riserva: abitualmente era di colorito pallido, ma, per certi inesorabili disegni del destino, in quel giorno memorabile del taglio della torta, il suo volto assunse un sostenuto tono rosso fragola. Tenete presente che, anche se la foto non è a colori, si nota un evidente contrasto tra lo scuro del suo volto e il bianco delle sue decorazioni. Perché appariva così raggiante? Suo padre, per evitare il totale collasso delle sue finanze, l’aveva appena ceduta in sposa al suo antico socio, un vecchio di sessant’anni. Alcuni istanti prima di uscire in direzione della mia casa per assistere alla cerimonia religiosa e dopo al taglio della torta, suo padre le aveva annunciato una così infausta novità. Non dimenticherò mai che, di ritorno dalla cerimonia, e mentre stavo entrando nel mio salottino privato per aggiustare una delle mie giarrettiere, che si era allentata, mi imbattei in lei, che distesa sopra un sofà azzurro si sventolava furiosamente. Senza dare la minima importanza al suo tono acceso, le chiesi se avesse molto caldo, e le dissi che anche se la festa non era ancora cominciata, lei, in qualità di amica intima della famiglia, poteva chiedere a uno dei domestici una coppa di sidro gelata. Ma lei, apprezzando con vive proteste la mia cordiale offerta, mi fece sapere che era condannata. Condannata?, ripetei, presa da grande curiosità. Sì, mi rispose, con un’agitazione che aumentava sempre di più. Condannata da mio padre a finire sposa del suo socio, quel vecchio libidinoso. Oh, dissi, e colpii leggermente con il tacco della mia scarpetta dorata la soffice moquette, che restituì un suono soffocato. Venduta! E aggiunsi subito: E qual è il motivo? La rovina di mio padre – rispose senza smettere di sventolarsi –. Allora io le dissi freddamente: Cara, tu sei tu, e tuo padre è lui! Non ti sposare. Non dissi mezza parola di più e uscii diretta alla sala principale dove ero attesa, tra risa, fiori e spumante per il taglio della torta. Alcuni giorni dopo, villeggiando al Lido, vengo a sapere dalla stampa del suicidio del padre della mia amica: si era sparato un colpo di pistola visto che non poteva scongiurare la rovina delle sue finanze, che con ogni certezza si sarebbe potuta evitare con l’alleanza di sua figlia con il suo socio capitalista. E lei?, mi direte voi. Sono dieci anni che ho perso le sue tracce; l’ultima volta che ci vedemmo pesava duecento libbre e fumava un pestilenziale tabacco turco. Non è così, Olegario?”
Ma Olegario si era addormentato. La dama, vedendo che il suo consorte non rispondeva con il solito cenno del capo, perse il ritmo delle spiegazioni e restò molto sconcertata. Calò il silenzio e io ne approfittai per perlustrare con lo sguardo l’auditorio. La felicità di quella gente era assoluta e neppure la più categorica compensazione sociale li avrebbe appagati tanto come erano appagati dalle spiegazioni della dama. Erano le otto di sera e già da mezz’ora la dama restava con il capo chino sul petto. Alcuni ospiti tirarono fuori, da sacchi che tenevano sotto le sedie, certe provviste e cominciarono a divorarle tranquillamente. “Nessuno può sapere fino a quando non lo abbia esperimentato che cosa significhi tagliare una torta di nozze”. La dama riprese il filo del suo discorso: “Guardatemi bene in quel momento: il coltello attaccato alla massa della torta, rapido a tagliare dall’alto verso il basso quella montagna di crema, mentre la mia mano sinistra si appoggia nervosamente all’avambraccio del mio consorte; lo sguardo in alto, e le papille gustative di tutti gli invitati che secernono saliva con una furia incredibile. Devo avvisare, per la miglior comprensione dell’atmosfera della foto, che questo fu il climax di quella indimenticabile serata; per questo motivo il fotografo lo catturò per l’eternità, facendo esplodere in quel preciso istante il suo magnesio, che ci avvolse in una densa nube di fumo bianco, con il conseguente spavento delle dame e le battute dei cavalieri. Adesso andrò a spiegare bene le singole storie dei restanti invitati, oltre a fornire una minuziosa descrizione delle loro rispettive toilettes. Cominciamo dalla signora del governatore, questa che vedete indossare un superbo abito di pailleté nero – e il suo dito tornava a cadere sopra un punto percepito solo dagli ospiti ricchi. – Amalia, così si chiamava la mia amica del cuore, in quell’epoca del taglio della torta, aveva appena avuto una bambina, frutto dei suoi amori con il signor governatore. Sì, è questa che vediamo accanto alla porta. Ma, ho detto porta? Oh, un sacro terrore mi possiede!” Si passò la mano sulla fronte, e dopo brevi secondi proseguì. “Chi entrava dal cancello del giardino e attraversava il corridoio orientale veniva a imbattersi nella suddetta porta. Chiaro che voi non potete avere identica sorpresa, perché avete davanti agli occhi solo una fotografia della porta e non la porta stessa; senza contare che non eravate miei amici a quel tempo e che la casa fu demolita quasi vent’anni fa. Ma se foste stati miei invitati in quella occasione o in qualsiasi altra, avreste esperimentato lo stesso terrore che aggrediva tutti noi che passavamo davanti a quella porta. Che cosa si nascondeva dietro la porta? Niente di niente. Era una porta falsa, voglio dire che era una porta dipinta, cioè, che non esisteva, udite?, che non esisteva, come non esiste un cassettone che vediamo in un soffitto e che tuttavia è dipinto per produrre la sensazione reale di uno vero. È proprio per questo motivo che nessuno avrebbe potuto oltrepassarla. Questo era quello che precisamente mi riempiva di terrore; già che esistono porte, almeno che abbiano uscita; a qualunque sito portino, ma che abbiano uscita. Dunque davanti a quella porta venne a mettersi, come state vedendo, la signora del governatore, nel solenne momento del taglio della torta. Poco dopo aver udito l’esplosione del magnesio e quando le nubi di fumo si erano disperse verso l’alto, io, rendendomi conto che Amalia restava nella sua posizione di persona pronta a fotografarsi, davanti alla porta, mi avvicinai con una fetta di torta e le dissi: Cara, come dalla mia carne…, ma lei, respingendomi con la sua bianca mano, mi diceva: No, cara, prima devo lasciare questa borsa che mi intralcia, e si mise in movimento al fine di oltrepassare la suddetta porta. Noi che eravamo presenti lanciammo in coro un’esclamazione di terrore, che ebbe come risposta un gemito straziante da parte della nostra cara amica, che non potendo oltrepassare la porta si era ferita il naso. Noi rispondemmo allora con una risata, perché il suo naso appariva macchiato dalla pittura fresca della porta, che era stata dipinta di recente per via delle mie nozze. E a tal proposito, vi descriverò il suo vestito, che pure finì macchiato in quel memorabile impatto”.
Trascorremmo un’intera settimana ad ascoltare la descrizione del vestito. Per esempio, raccontare il ricamo delle maniche portò a colazione il nome della ricamatrice, nome che la dama dell’album chiese alla sua amica proprio in quella occasione. Al tempo stesso fu raccontata la tragica storia di questa ricamatrice, rapita dal suo amante e morta violentemente dopo essere stata violentata. A giudicare dall’entusiasmo descrittivo della dama, la riunione prometteva di superare il tempo record di sei mesi che fino ad allora era stato raggiunto. In uno dei brevi momenti in cui la dama sospendeva le sue spiegazioni per vuotare un enorme bicchiere di limonata fredda, fui vivamente felicitato da tutti coloro che erano lì riuniti, perché, mi si diceva, la riunione, con ogni certezza, avrebbe superato il tempo delle riunioni precedenti. Inoltre mi convinsero che non sarebbe stata cosa di cui vergognarsi defecare sulla sedia in cui mi trovavo. Defecai, quindi, copiosamente sopra la mia poltrona, mentre la giovinetta al mio fianco mi offriva un pezzo di carne arrostita, e io, per contraccambiare, la omaggiavo con un pezzo di pollo fritto. Siccome era arrivato l’inverno e le notti si stavano facendo fredde, il portiere si assentò per portare coperte agli ospiti che le desideravano, certo, a patto che pagassero per il sevizio prestato. Esattamente come me l’aveva annunciato, la dama di pietra morì proprio dopo cinque mesi che era cominciata la riunione. Non dimenticherò mai il suo volto. Nel momento in cui lei spirava, la dama dell’album diceva, con grande enfasi, che la confezione della torta di nozze era stata realizzata sotto la sua personale direzione. Mentre elencava gli ingredienti necessari, il volto morente della signora di pietra pareva dire alla dama dell’album che si affrettasse. Ma tutto fu vano, e ho la certezza che la morta non riuscì ad ascoltare il racconto degli ultimi tre ingredienti. Mentre la dama di pietra stava spirando, la dama dell’album lentamente e affettando molto le parole: “Infine si aggiungono all’impasto parti uguali di vaniglia, cannella ed essenza di limone…”
Eravamo già nell’ottavo mese e la dama non aveva ancora finito di elencare gli innumerevoli regali di nozze che aveva ricevuto da familiari e amici, regali che apparivano nella fotografia collocati sopra una grande tavola che stava di fronte a un’altra piena di dolci e di liquori. Va da sé che l’occhio riusciva a vedere nella foto soltanto una tavola con sopra un’enorme macchia, ma siccome la dama sapeva a memoria fino all’ultimo di quelli oggetti, poteva procedere elencandoli con estrema fedeltà. Quello sì che costituiva uno spettacolo magnifico e non certi insipidi spettacoli cinematografici con la loro insopportabile camera oscura e le loro inevitabili masturbazioni. Erano le sei della sera dell’ultimo giorno di quell’ottavo mese e finiva la dama di descrivere un piccolo acquarello che si poteva notare sopra un bel porta spartiti, quando, chiudendo pesantemente l’album, si alzò e iniziò l’uscita, seguita dal suo sposo che portava, con le braccia in alto, il prezioso oggetto. Tutti seppero allora che la riunione era conclusa.
(Da: Virgilio Piñera, Cuentos fríos, 1944)
Traduzione di Gordiano Lupi