Roberto Malini. La cintura di castità non era un simbolo di libertà della donna | | | Il disegno del XV secolo raffigura una cintura di castità, dal “Bellifortis” di Konrad Kyeser |
19 Agosto 2016
Genova – Le polemiche sul burkini sono spesso pretestuose o basate su una concezione non egualitaria dei diritti umani. È evidente che burka e burkini sono strumenti di possesso e dominio del corpo femminile, la cui dignità viene annullata sotto a vesti che lo nascondono e negano. Con meno enfasi mediatica rispetto alla querelle del burkini, recentemente in alcuni ambienti si è paragonato il diritto alle unioni civili a quello alla poligamia. Anche in quel caso, la poligamia, però, doveva privilegiare solo il maschio. Guai ad affermare che se il matrimonio poligamico fosse riconosciuto dalla legge, esso dovrebbe riguardare anche il diritto della donna di avere più mariti. L'infibulazione non è un diritto della donna, ma una terribile violazione dei suoi diritti: questo sembra risultare evidente a tutti, almeno in occidente. Auguriamoci che lo rimanga nei secoli dei secoli. Ai tempi delle Crociate, le donne accettavano di indossare la cintura di castità in attesa dei loro mariti e se qualcuno le avesse intervistate su quella barbarie, avrebbero risposto che per loro era un pegno e un segno di amore e fedeltà. Che era una tradizione e che una donna onesta non aveva motivo di ribellarsi a quel tormento. Oggi ne siamo tutti consapevoli: la cintura di castità non era un simbolo di libertà della donna. E non lo è il burkini. Lo dimostra il fatto che i sostenitori di questo abuso non lanciano la proposta di burka e burkini unisex: quello che vale per lei, deve valere anche per lui. No, il nero sipario deve cancellare solo ed esclusivamente il corpo femminile. I conti non tornano.
Roberto Malini | | |