Ritratti
Mauro Garofalo. Alla fine di ogni cosa, romanzo di uno zingaro
21 Luglio 2016
   

Mauro Garofalo

Alla fine di ogni cosa

Romanzo di uno zingaro

Frassinelli, 2016, pp. 258, € 18,50

 

L'avevano tirato su e l'avevano portato in spalla. In giro per il ring e sotto, in mezzo alle file di poltrone. Le ragazze che lo baciavano. E sorrideva, Rukeli. Il re del mondo. Le braccia al cielo. Il punto più alto. Ce l'aveva fatta. Lo aveva sfiorato con un dito. Lo specchio gli aveva restituito, infine, il volto del campione. La sua immagine. Si sarebbe sgretolata. Era appena l'inizio della fine.

 

Johann Wilhelm Trollmann detto Rukeli, vale a dire Albero. O anche Gipsy Trollmann. Sinti. Nato a Wilsche, in Bassa Sassonia, il 27 dicembre 1907. Pugile, peso medio o mediomassimo. Un fisico statuario, scolpito; un volto da bel tenebroso hollywoodiano. Il pugno di Johann era veloce come il lampo, i piedi capaci di danzare come quelli di Ray Sugar Robinson o di Muhammad Ali tanti anni dopo di lui.

E come Ali fu privato del titolo di campione del mondo così Rukeli, lo zingaro, fu sostanzialmente esautorato dal titolo di campione di Germania legittimamente conquistato sul ring. Perché non combatteva secondo gli schemi previsti dal Partito Nazionalsocialista, data la sua boxe troppo “artistica”, quindi poco virile a detta della cricca al potere. Soprattutto Gipsy-Rukeli non era ariano; apparteneva il ragazzo del campo dei nomadi sul fiume, a Hannover, a una razza inferiore.

Alla fine di ogni cosa di Mauro Garofalo è una biografia romanzata di eccezionale caratura stilistica, nonché una perfetta ricostruzione di quella vecchia e quasi dimenticata vicenda. La storia di Trollmann viene ricostruita in tutta la sua verità esistenziale, storica, sportiva. Le parti di fiction sono assai ben amalgamate con il tessuto della realtà che va a dipanarsi: dall'ascesa alla caduta; dalle speranze al precipizio; dal trionfo alla rovina; dall'amore all'orrore del lager.

Ci sono il sangue e il sudore del ring, le palestre fumose, la dura preparazione all'evento pugilistico, il rumoreggiare della folla nell'attesa o durante i round, la ridda di pensieri del boxeur sul quadrato o all'angolo. E lo scombussolamento di quella Germania, la presa del potere da parte delle truppe hitleriane, l'incendio del Reichstag, le violenze delle SA e delle SS, il rogo dei libri nelle piazze, i negozi degli ebrei distrutti e la sinagoga arsa.

Nella ripetizione dell'incontro per il titolo, questa volta contro Gustav Eder, cui fu costretto Trollmann per provocazione si presentò sul ring coperto in tutto il corpo di farina e i capelli tinti d'oro, a simulare il perfetto ariano. Perse brutalmente. In realtà non combatté neppure.

Era divenuto un paria, un senza diritti, un uomo da perseguitare. Come lo zingaro che era – la sua gente, non si dimentichi mai, subì un altrettanto terribile olocausto –, come gli ebrei, gli omosessuali e i disabili. Fu costretto a divorziare e fu sterilizzato, andò al fronte, finì dietro il filo spinato di un lager (Neuengamme, vicino ad Amburgo) a consumarsi, fra disperazione e rassegnazione, fra rabbia e nostalgia, e lì, pur debilitato, obbligato a combattere, per un tozzo di pane in più, per il divertimento di kapò e aguzzini. Una pallottola pose fine alla sua straordinaria e sventurata vita. Aveva soltanto 35 anni.

Nel 2003 a Trollmann fu ridato dalla federazione pugilistica tedesca il titolo di campione nazionale dei mediomassimi. Una riparazione tardiva, che certo non compensa il sacrificio di quella giovane vita, ma una scelta opportuna e fortissima dal punto di vista simbolico.

Ben venga questo libro dalle pagine magistrali e toccanti, che ci restituisce la verità di uno sportivo formidabile, vittima ed eroe, e lo spaccato di un periodo troppo tenebroso della storia umana, sperando che questa non dia gli stessi frutti marci. I tempi presenti, ahinoi!, hanno le stimmate della terribilità e dell'odio (anche razziale).

 

Alberto Figliolia


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