Orhan Pamuk
La stranezza che ho nella testa
Traduzione di Barbara La Rosa Salim
Einaudi, 2015, pp. 584, € 22,00
Istanbul non è la capitale ufficiale della Turchia, sospesa com’è tra Europa e Asia, ma è la città cui aspirano tutti i turchi, soprattutto coloro che tendono a una promozione sociale, a sfuggire la povertà e le angustie culturali dei piccoli paesi dell’Anatolia, a diventare in qualche modo “europei” pur restando fedeli alle tradizioni e all’Islam. Un grande calderone dove ribollono tutti i fermenti innovativi e dove trovano spazio tutte le diverse etnie e le diverse appartenenze del popolo turco.
Mevlut è un venditore di yogurth e di boza, una bevanda a base di mais e di grano, di malto, fermentata e preparata con metodi artigianali e costruita per il suo modesto contenuto alcolico mascherato per aggirare il divieto di consumo di bevande alcoliche. Mevlut viene dalla provincia e ha imparato questo mestiere dal padre e lo pratica da quando era ragazzo. Il venditore di boza porta un giogo sulle spalle che regge un bilanciere dove stanno i bidoni della bevanda e i bicchieri. Venditore ambulante che gira la sera e nottetempo per le strade e i vicoli della grande città, gridando “boooza” talvolta accolto con favore dai residenti che lo invitano a salire, talvolta rischiando i branchi di cani rabbiosi e violenti.
Mevlut ama questo mestiere e lo pratica con passione e non lo abbandona nemmeno quando le evenienze e le necessità della vita lo portano a fare altre cose durante il giorno, il cameriere, il gestore di piccoli negozietti, il funzionario dell’ente dell’energia elettrica, deputato a controllare gli allacciamenti illegali.
Attorno a Mevlut si muove tutta una comunità di gente immigrata dalla provincia, aleviti, curdi, gente normale ed esaltati rivoluzionari. Mevlut è un uomo pacifico e ingenuo, che è pago della semplicità della sua vita e aspira solo a trovare una moglie e costruirsi una piccola casetta. Gli immigrati occupano gradatamente tutti i terreni demaniali attorno alla città, delimitano spazi arbitrariamente privatizzati, ne rivendicano la proprietà con certificati ottenuti da funzionari corrotti. Istanbul cresce in questo modo insensato, senza un piano regolatore, senza un vero impianto urbanistico. Mevlut ha anche lui il suo angusto spazio ereditato dal padre. E a un matrimonio incontra gli occhi di una ragazza giovanissima della famiglia dello sposo e ne rimane abbagliato. Le scrive quindi lettere su lettere esaltandone la bellezza e il fascino con parole da innamorato, ma queste missive vengono dirette a un nome sbagliato Rayiha, sorella della più bella Samiha, ma, in quanto maggiore, con titolo al matrimonio prima della sorella. Alla fine, con l’aiuto di un amico complice dello scambio, Mevlut rapisce l’innamorata ma nella persona di Rayiha, cui non aveva destinato le lettere. E, nonostante tutto, la sposa e la ama con passione, vive con lei una vita pacifica e meravigliosa, per nulla turbato dallo scambio. Fino alla morte di Rayiha avvenuta per il terzo parto infelice. Dopo di che Mevlut sposa Samiha, la donna dello scambio delle lettere perché ormai la cosa è quasi di pubblico dominio.
Questo il nocciolo della vicenda privata di Mevlut, abbastanza strano, intriso di ritualità arcaiche come il rapimento ai fini del matrimonio per sfuggire alla combine delle famiglie. Ma non è qui tutto il libro di Pamuk. Che è un testo corale, epico che rappresenta nel bene e nel male la crescita tumultuosa di Istanbul, la sua modernizzazione in nome di una speculazione selvaggia, ma inevitabile per la pressione demografica cui la città è sottoposta. E i protagonisti sono tutti gli immigrati turchi, tradizionalisti e innovatori, tra un colpo di Stato e l’altro, nella generale corruzione pubblica e privata che destabilizza la cultura originaria e ne mina le fondamenta. L’autore, profondo conoscitore della città, non fa dell’inutile moralismo, guarda attraverso la storia di Mevlut e il progressivo declino della sua professione di venditore di boza la trasformazione di Istanbul e ne rievoca con nostalgia un passato che non tornerà. Il passato dei vicoli nel centro e nelle periferie, la semplice vita degli immigrati e il grido del venditore, il bozaci: “Booza”.
Proprio per questo le pagine finali sono le più belle e le più ispirate: «Quando alla fine dell’estate le ruspe della Vural Costruzioni cominciarono a demolire le case di Kültepe, Mevlut andò tutti i giorni a guardare… quando fu il turno della sua, Mevlut sentì un tuffo al cuore. Bastò un colpo della pala meccanica e in un attimo migliaia di ricordi – la sua infanzia, i cibi che mangiava, i compiti che faceva, gli odori che respirava, la voce del padre che russava mentre dormiva – andarono in frantumi, dispersi per sempre».
E Mevlut, testardamente, in quella nuova selva urbana di case di sette, otto piani, continua a vendere la boza. E una voce gli dice “Non smettere mai bozaci. Non chiederti mai chi la comprerà fra questi palazzi e questo cemento. Tu gira per le strade.” E Mevlut risponde: “Non smetterò mai di vendere la boza, io”.
E ciò che voleva dire alla città proveniva da dentro di lui ed era tutto intorno a lui, era un’intenzione sia del cuore che delle labbra “Ho amato Rayiha più di ogni altra cosa a questo mondo“ disse Mevlut tra sé e sé. Rayiha che rappresenta la donna turca della tradizione, riservata e sottomessa.
Un libro, quest’ultimo di Pamuk, difficile da definire. Certamente è un libro sulla cultura tradizionale turca in evoluzione, tra nostalgia e avanzata ineluttabile del progresso con le sue molteplici ombre e le sue luci, rappresentate soprattutto dall’emancipazione delle donne, che hanno, nel romanzo, un ruolo particolare di stimolo positivo e di animazione di un mondo maschile un po’ retrogrado e tardo a muoversi. Non per nulla il nome e il ricordo di Ataturk ricorrono con frequenza.
Una lettura impegnativa e difficile, a volte annebbiata dalla noia del ripetersi di situazioni e intrecci già visti. Ma ampiamente riscattata da un finale (la settima parte: “la forma di una città che cambia”) forte e illuminante:
«Anche da bambino, e poi da ragazzo, Mevlut credeva che gli oggetti misteriosi che osservava quando camminava per le strade sbucassero dalla sua mente - Sapeva che era tutta immaginazione, ma fantasticava lo stesso… E, negli ultimi anni, per Mevlut non c’era più alcuna differenza fra le sue fantasie e le cose che vedeva per le strade. Era come se fossero fatte della stessa sostanza».
La stranezza che tutti abbiamo nella testa…
Mario Lucchini