Antonella Pierangeli. L’eresia e la visione: Pasolini l’impuro in un Paese orribilmente sporco | | 04 Novembre 2015
«La libertà si manifesta nell’azione del capire»
Pier Paolo Pasolini
Nel corso degli anni che ci separano dalla sua morte, Pier Paolo Pasolini è stato fatto oggetto di espliciti, ripetuti, quanto indebiti tentativi di appropriazione politica. Destra e Sinistra si sono contese orribilmente il suo pensiero (a volte solo brandelli di esso) depredandolo e facendone scempio con audacia e ignobile approssimazione. E così finti esegeti, armati in realtà solo di avvolgenti rampini ideologici hanno tentato d’imprigionare nelle galere dell’ortodossia l’unico vero corsaro che abbia mai imperversato nei mari cupi e tremebondi della cosiddetta cultura comunicativa in Italia.
Finché era vivo, Destra e Sinistra l’hanno criminalizzato, processato, hanno tentato di marginalizzarlo in tutti i modi. Alla Destra del Potere – in senso foucaultiano un vero e proprio cadavere semantico – non piaceva il suo j’accuse contro il tecno-fascismo, il suo dichiararsi antropologicamente comunista, il suo essere intellettuale civile, la sua sfrontata sfida omosessuale La Sinistra del Potere, invece, lo considerava reazionario, nostalgico paladino del mondo contadino, antiprogressista; oltre che inaffidabile perché “non organico”, indisciplinato, irregolare, imprevedibile.
Prima della sua morte tutti hanno tentato di ucciderlo, dopo la sua morte tutti hanno tentato di fagocitarlo, di digerirlo, come un bolo alimentare indesiderato o, peggio ancora, di appropriarsi del suo ricordo. Niente altro che patetici tentativi di damnatio memoriae attraverso la furbizia del pasolinismo postumo e di comodo, del “sì, celebriamolo, osanniamolo e come tutti i martiri assunti in cielo, liberiamocene per carità…”. Ingombrante da vivo, intollerabilmente presente da morto…
Ma Pasolini non si lascia imprigionare da nessuno, né tantomeno le ruffianerie postume di Destra e Sinistra possono minimamente scalfire quella che ormai dovrebbe essere stata acquisita come categoria onnicomprensiva del pensiero poetante e corsaro di Pasolini: l’impura incollocabilità, qualcosa che somiglia al “pensatore dai mille volti” di foucaultiana memoria. Niente di più visceralmente assimilabile: “Io sono un artificiere. Fabbrico qualcosa che alla fine serve ad un assedio, a una guerra, a una distruzione. Io sono per la distruzione ma sono a favore del fatto che si possa passare, che si possa avanzare, che si possano abbattere i muri”. Questo scriveva di sé Michel Foucault negli anni Settanta, anni cruciali anche per Pasolini, quelli dell’irriducibilità ad ogni appartenenza per entrambi.
Ma Pasolini, trasversale ante litteram, ha attraversato le due più rilevanti culture del tempo, quella marxista e quella cattolica, senza mai farsi intrappolare dalla loro ortodossia. Grande sperimentatore di linguaggi, ha coltivato linguaggi letterari e gauchistes, ma non è mai diventato militante di quell’anticonformismo per partito preso che ha conformato l’Italia per oltre un decennio. Sì, è vero, la borghesia ha cercato di corteggiarne la figura di maudit, ha cercato di vampirizzarne la “parole”, ma lui non ha mai permesso che ciò corrompesse il suo cristologico “amore per il popolo” e per il suo “corpo”. Certo, è vero, ha amato il popolo, ma sempre viaggiando con sofisticata eleganza e partecipazione, nella grande cultura borghese del Novecento.
Contraddittorio come egli voleva e come, anche volendo, non poteva non essere, Pasolini ha lanciato oltre ogni limite la sua individualità. Ha brandito come un’arma la sua irregolarità, ha infine insegnato con serena pedagogia ad amare la singolarità dell’umano, che se vissuta con coraggio testimonia sempre e comunque la libertà universale. Ecco, dunque in un paese curiale, in un paese assolutamente non cristiano, in uno Stato colmo di oligarchie che si sono finte popolari, ecco che in un “paese orribilmente sporco” egli ha rappresentato l’alterità, l’antinomia, l’opposizione. L’impurezza estrema.
Ondate di profezie bagnano le sue ultime pagine corsare e luterane. Leggendole di nuovo, ora, a distanza di un trentennio, si scoprirà che dagli anni ’50 e ’60 – e anche nei due decenni successivi – nulla è cambiato, i problemi del Paese sono sempre gli stessi, tanto che l’utopista, il provocatorio Pasolini, appare a distanza sempre di più come una sorta di riformista allucinato e pragmatico, non appena si riflette sul fatto che le classi dirigenti che si sono avvicendate negli anni, nulla hanno fatto perché fosse portato a soluzione ciò che Pasolini disperatamente intuiva come fondamentale per il destino italiano.
La scuola, la televisione, l’inesistenza di un’etica pubblica, la volgarità e la corruzione del potere: le visioni di Pasolini poco o nulla possono proporci nell’immediato, si tratta pur sempre delle provocazioni di un poeta. Eppure se governare un Paese significa anche capire per tempo i suoi problemi – e proporre soluzioni positive – bisognerà pure dire che, forse, nella folle corsa alla distruzione dell’Italia hanno partecipato proprio le classi dirigenti. E che Pasolini invece, testardo intellettuale d’opposizione, proponeva, inascoltato, l’unico metodo di governo possibile: prevedere per prevenire, prevenire per riformare.
C’è del metodo, dunque, nella sua follia. E si sente soprattutto il corrucciato vagabondare intellettuale di un italiano senza Italia, di un profeta senza nazione, di un uomo dotato di sensibilità eccezionale, di una lucidità senza padrone, che cerca una ragione pubblica nella quale credere, bussando di porta in porta senza mai trovarla, come in una notte di Betlemme dell’identità.
Pasolini vede e conosce l’Italia, vuole riconoscere il volto della sua gens, ma si trova invece inerme e spaventato dentro un universo privo di segni distintivi, senza caratteri, ostile anzi alle differenze e alle diversità per genocidio antropologico, paralizzato com’è prima dall’omologazione del potere e poi dall’omologazione dei consumi. È proprio allora che la potenza della preveggenza di Pasolini anticipa fortemente quella che sarà la “fame” di valori e di un nuovo equilibrato rapporto tra “radici e mondo” che caratterizza l’epoca successiva alla sua morte e ancor oggi quella in cui viviamo.
Ma c’è dell’altro. Al di là di questo, Pasolini fu, essenzialmente, un solitario. Come tutti i solitari fu incompreso. Come tutti i profeti è stato poi “assunto” da tutti. Ma, come sempre “in direzione ostinata e contraria”, Pasolini, all’opposto di molti profeti e solitari, rimane incollocabile. Questa categoria dell’incollocabilità è e rimane la rabbia e il cruccio miserabile di tutti i suoi detrattori, la caratura del livore dei Salieri di ogni tempo, coloro che, non potendo per mancanza, sop-periscono nelle sabbie mobili dell’anonima presenza…
È dunque molto meglio riconoscere ciò che di lui non si condivide e contestarlo apertamente (armandosi però di titaniche competenze ed esegetica volontà, altrimenti una risata – in primis la mia – potrebbe seppellire l’incauto ermeneuta), piuttosto che tardivamente quanto inopportunamente fingersi “pasoliniani”, per usare un’odiosa quanto semanticamente putrescente categoria.
Dunque, ammettiamolo – cioè ammettetelo – in un Paese in cui continuano a prevalere nella comunicazione pubblica, l’omertà, la disonestà intellettuale, le logiche di clan e di appartenenza, la follia della sconcezza ideologica, l’irregolarità di Pasolini si staglia come una stella polare di civiltà e coraggio. Non scimmiottiamolo dunque, ma se si può, se si trovano il cuore e le viscere per farlo, nell’esercizio quotidiano della vita, tentiamo di fare nostro il suo metodo. Rendere cioè regola la corsarità. Fare della propria vita l’impurezza estrema.
«…E io
ritardatario sulla morte, in anticipo
sulla vita vera, bevo l’incubo
della luce come un vino smagliante».
Pier Paolo Pasolini
Antonella Pierangeli
(da Critica impura, 24 settembre 2011)
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