Su Libero quotidiano del 12 luglio scorso Davide Brullo, nella sua rubrica “Polemiche”, prende in analisi la figura dello scrittore correggese Pier Vittorio Tondelli (qui il link all'articolo) di cui, come ricorda Brullo, quest'anno ricorrono numerosi anniversari. La conclusione a cui giunge il giornalista (o meglio, il concetto da cui partiva, visto che suddetto pensiero era espresso fin dall'incipit del medesimo articolo) è che «Tondelli è uno degli scrittori più sopravvalutati di questo Paese». Per avvalorare la sua tesi, Brullo passa frettolosamente in rassegna una parte della produzione tondelliana, rileggendola alla luce di due “capisaldi” che stanno alla base del suo postulato. Il primo è che la morte dell'autore (Tondelli morì di AIDS il 16 dicembre 1991), secondo Brullo, avrebbe donato al medesimo un'aria “mitica”, avvicinandolo alla figura di star del calibro di Freddie Mercury. Il secondo è l'etichetta di “scrittore generazionale”, che Brullo ascrive (va detto, però, che in questo è in buona e numerosa compagnia) a Tondelli, derubricandolo come un cantore dei “tempi andati”. Uno scrittore che si legge (e rilegge) per vivere una sorta di amarcord degli anni '80.
Come ogni buon polemista, Brullo parte con la cavalleria pesante (la definizione stentorea di “sopravvalutato”), facendo poi seguire a essa una serie di mezze verità critiche su alcune opere di Tondelli. Opere che Brullo passa in analisi per avvalorare (giustamente) la propria ipotesi. Schopenhauer, però, lo abbiamo letto un po' tutti, e la vecchia tattica di “gettare la palla” in un altro campo per poter giocare secondo altre “regole” e “convenzioni” è tanto vecchia quanto manifesta. Per lo meno a un occhio critico, che abbia letto l'opera di Tondelli con attenzione e senza alcun tipo di pregiudiziali. Ma, come dice Jules in Pulp Fiction, questo «non è lo stesso fottuto campo da gioco, non è lo stesso campionato, e non è nemmeno lo stesso sport», quindi vediamo di riportare la palla al centro, posizionandola sul terreno di gioco di sua competenza.
La prima “revolverata” di Brullo parte all'indirizzo di Altri libertini (1980), libro d'esordio di Tondelli. Libro che Brullo definisce prima come il «più bello di Tondelli», salvo poi (in chiusura d'articolo) invitare a «gettarlo dalla finestra e leggere di meglio, che è meglio». Per Brullo, Altri libertini è un libro che, nato dalla lezione del Céline di Viaggio al termine della notte, si stempera in un'onesta “manovalanza”, così da stare all'originale come un documentario sul Vietnam sta ad Apocalypse Now. Ora, utilizzare le parole di Tondelli sull'importanza della lettura di Céline nella stesura di Altri libertini, appare avvalorare la tesi di Brullo; eppure, a una lettura più attenta del testo, ci si rende conto di come la riflessione di Tondelli sia principalmente volta all'aspetto linguistico. Ovvero al tentativo, tutto celiniano, di creare un linguaggio unico e peculiare. Un linguaggio capace di fondere dialetti, neologismi, crasi lessicali di diverse parlate, volgarismi (le famose bestemmie che costarono al libro il sequestro per «oscenità e oltraggio alla pubblica morale»), il tutto in funzione della resa di una materia narrativa viva e brulicante. «Quello che mi affascinava in Céline» dirà Tondelli «era il grottesco, il ritmo della pagina, l'avventura e la velocità di parola. È quello che un po' presi per Altri libertini». E ancora: «insieme al parlato di Céline, quella di Kerouac è stata per me la maggiore lezione di stile». Strano, infatti, che Brullo non tiri in causa anche Kerouac (i cui rimandi, fin dalla storica copertina di Altri libertini con gli autostoppisti, sono forse più marcati) o Hubert Selby jr. nel tentativo di ridurre in maniera consistente l'importanza (letteraria e sociologica, ma non nell'accezione di “generazionale”) che Altri libertini ha assunto per molti scrittori contemporanei e successivi a Tondelli. Soprattutto, come già sottolineato in precedenza, in termini linguistici.
La seconda revolverata parte all'indirizzo del testo più “indifeso” di Tondelli, ovvero Biglietti agli amici (1986). E questa, mi si consenta dirlo, è davvero una carognata. Quando si spara, però, si punta dritto al cuore, e Brullo lo fa in maniera chirurgica. Biglietti agli amici, infatti, è un testo che (come tradisce lo stesso titolo) era destinato a una ristretta cerchia di ventiquattro amici. Figure importanti nell'esistenza di Tondelli, cui lo scrittore (la notte di Natale del 1986) volle regalare un “libro d'ore” contenente citazioni da canzoni o libri a lui cari, stralci di nuovi romanzi, riscritture, pensieri sparsi. Il tutto in una chiave prettamente intimistica, affinché il destinatario del singolo “biglietto” fosse il solo a comprendere appieno la natura della citazione. Definirlo un «quaderno di frasi diaristiche e banali che profetizza le pulsioni sgrammaticate dei post su Facebook» è voler fare un torto non tanto al libro in sé (libro che, per quanto ne dica Brullo, ha il pregio di una scrittura aforismatica e intimistica, così rara quanto preziosa nel panorama letterario italiano), quanto più alle motivazioni che spinsero Tondelli a scriverlo. Biglietti agli amici, infatti, dopo la prima edizione (limitata ai ventiquattro destinatari) vide per precisa volontà dell'autore una tiratura decisamente limitata (a cui va aggiunto l'inconveniente del rogo di un'edizione che recava erroneamente i reali nomi dei destinatari), così da ribadire la volontà dell'autore di «creare con piccoli editori amici un laboratorio in cui il trasformarsi di un testo in libro sia un'avventura di solidarietà, impegno e divertimento». Nulla di più lontano, insomma, dalla logica bulimica e banalizzante dei social network suggerita da Brullo.
Il terzo attacco parte all'indirizzo del Tondelli «modesto scopritore di talenti», riferendosi alle tre antologie per scrittori under 25 (Giovani blues, Belli e perversi, Papergang) curate dallo scrittore correggese. Brullo sottolinea come aver scoperto “epigoni” del calibro di Bugaro, Ballestra, Conti, Canobbio, Culicchia (autori che, senza produrre giudizi di merito come quello di “epigoni”, sono ben saldi nel panorama letterario italiano) sia ben poca cosa. Senza, però, sottolineare come Tondelli sia riuscito a portare a termine un'operazione letteraria volta non a uno scopo “utilitaristico”, bensì a «offrire a quanti scrivono uno strumento per poter pubblicare e far leggere i propri lavori». Tondelli investì tempo e passione in quel progetto, visionando con cura centinaia di manoscritti, correggendoli, aiutando gli autori a editare i testi stessi. Il tutto per dare voce a ragazzi che, com'era stato per lui, sentivano dentro la voglia di scrivere ed esprimersi. Ancora una volta Brullo taccia in modo caustico un gesto lodevole e decisamente moderno, limitandosi a considerazioni sommarie (“modesto scopritore di talenti”) per altro non supportate dalla prova dei fatti. Che quasi una decina di scrittori provenienti da tre antologie continuino la loro carriera rivolgendosi al panorama letterario nazionale non è affatto cosa da poco, anche in termini statistici. Soprattutto se alla base del progetto non c'era la volontà di scounting, bensì quella di offrire un'opportunità nel panorama letterario nazionale.
Sulle critiche fatte al Tondelli «romanziere degli stereotipi» (critiche che fanno il paio con quelle di Tondelli scrittore generazionale, «specchio dei suoi anni»), avvalorate da alcune citazioni del romanzo Rimini (1985), vorrei davvero sorvolare. Limitandomi a sottolineare come per Tondelli Rimini sia stata la “prova del best-seller”, ovvero un testo dalle tematiche e dalla struttura volutamente diversi rispetto alla produzione precedente, volto a verificare le sue capacità narrative in un campo (quello del best-seller, appunto) completamente diverso dal suo. Se la resa letteraria non è stata globalmente apprezzata dalla critica (Rimini non è di certo uno dei migliori romanzi di Tondelli), il riscontro con il pubblico è stato clamoroso. Rimini vendette oltre 100.000 copie e, una volta toltasi di dosso la “scimmia” da best-seller, Tondelli poté continuare a cimentarsi su altre tipologie narrative. Tipologie che lo porteranno alla composizione del suo ultimo romanzo, quel Camere separate che suona quasi come un testamento dell'autore. Romanzo che Brullo evita platealmente di menzionare, preferendo sottolineare (richiamando la morte dell'autore) la figura di un Freddie Mercury in salsa italica, piuttosto che quella di un autore che, posto di fronte alla sua ultima fatica, scopre di avere tra le mani «un libro che va dove vuole e non dove io tento di metterlo. E mi devo sforzare di seguirlo anche in certe zone di me ce non vorrei». Parlare di Tondelli senza citare Camere separate, però, non è di certo possibile. O, quanto meno, è decisamente sospetto.
Non sarò io, però, a parlare di Camere separate (o di Pao Pao, altro romanzo che Brullo non cita, credo ritenendolo, a torto, un romanzo “minore”), così come non avrei voluto dover “rispondere” all'articolo di Brullo. Credo che un autore si spieghi per mezzo della sua opera, la quale (a discapito di me, di Brullo e dei lettori stessi) sopravvive e si presta alle considerazioni e alle analisi cui le generazioni successive la sottoporranno. Anche, e soprattutto, in chiave critica. Sotto questo punto di vista, quindi, il fatto che si continui a parlare dell'opera di Tondelli è qualcosa di significativo, una sorta di marker di quanto l'autore di Correggio abbia influenzato gli autori e i critici a lui successivi, spingendoli a interrogarsi sui suoi testi o, come nel caso di Brullo, sul loro “valore” piuttosto che sul loro significato. Dal mio punto di vista, credo che la critica letteraria (soprattutto quella “storica”) viva un periodo di appassimento non indifferente, e credo lo viva da diversi anni. Vittima tanto di produzioni sempre più scandenti, quanto di una superficialità di fondo che, spesso, fa preferire una facile polemica (non si dimentichi, però, che qualsiasi polemica, per essere tale, deve partire da un fondo di verità) a un'analisi accurata del testo letterario in questione.
La realtà contemporanea, poi, non facilita affatto un'inversione di tendenza e qualche “revolverata” sul mucchio (selvaggio) è preferibile a una lettura attenta e circostanziata. Proprio per questo sento un profondo senso di smarrimento nel contro-argomentare le critiche che vengono mosse all'autore Pier Vittorio Tondelli, perché la volontà di traslare alcuni aspetti della sua opera in campi interpretativi completamente differenti è la sottile linea rossa su cui si basa l'essenza dell'opera stessa. Opera che, proprio per la sua multiforme produzione (romanzi, racconti, reportage, testi teatrali, libri d'arte,...), porta con sé numerose possibilità non tanto di errata interpretazione, quanto più di lettura superficiale, approssimativa. Lettura che, non a caso, rischia di essere compressa dentro stereotipi semplicistici per essere analizzata. E, nel caso di Tondelli, lo stereotipo di “scrittore generazionale” è decisamente quello più gettonato e maggiormente tirato in ballo.
Basterebbe davvero poco, però, per confutare questo facile stereotipo, rimarcando la freschezza che la prosa e il linguaggio tondelliano mantengono ancora oggi. Una freschezza e una modernità per nulla vincolate ad amarcord generazionali, bensì frutto del grande lavoro stilistico cui Tondelli ha sempre sottoposto i suoi testi. Quando Brullo scrive che leggendo Tondelli «“ti riconosci”, che è proprio il contrario di quello che si pretende da un grande romanziere» dimostra come la sua analisi non sia tanto errata, quanto più parziale, limitata. Leggendo Tondelli il lettore non si riconosce, bensì percepisce la vicinanza dell'autore con i sentimenti e le tematiche espresse. Il suo aver lottato duramente per arrivare al punto di descriverle con tale precisione. Tondelli riesce a trasferire nei suoi libri non un sentimentalismo spicciolo (quella fascinazione immediata e preconfezionata di cui è pregna gran parte della narrativa moderna, fascinazione capace di durare il battito d'ali di una stagione letteraria), piuttosto una sensibilità che trascende il gap generazionale (e non solo), giungendo al lettore fresca e sincera anche a diversi decenni di distanza. Ne Il giovane Holden, Salinger faceva dire al protagonista Holden Caulfield che i libri «che mi lasciano proprio senza fiato sono i libri che quando li hai finiti di leggere e tutto quel che segue vorresti che l'autore fosse tuo amico per la pelle e poterlo chiamare al telefono tutte le volte che ti gira». Ecco, questo è ciò che accade precisamente con le opere di Tondelli, ed è un aspetto facilmente verificabile partecipando a reading incentrati sulla sua figura, discutendo con i suoi lettori, confrontandosi con coloro i quali hanno studiato la sua opera e, perché no, “battagliando” con i suoi stessi detrattori.
Tuttavia anche le critiche più accese danno la possibilità di ritornare sull'opera di un autore, così da confrontarsi con l'evoluzione della stessa se rapportata all'evoluzione della società e del gusto (letterario, ma non solo). Gettare Tondelli dalla finestra, quindi, ci priverebbe non dell'amarcord anni '80 paventato da Brullo, bensì della possibilità di riscoprire, attraverso la sua sensibilità e la sua capacità di analisi linguistica e intimistica, il profilo di un autore che manca maledettamente al panorama contemporaneo italiano. Un panorama sempre più schiacciato su se stesso, all'interno del quale le voci fuori dal coro si contano davvero sulle dita di una mano (qualcuno ha detto Moresco?) e in cui la “freschezza” tondelliana rappresenterebbe una boccata d'ossigeno e non l'ennesima, asfittica, lettura generazionale.
Come ricordava Brullo, però, Tondelli non c'è più. Se n'è andato quasi un quarto di secolo fa, lasciandoci con un decennio di produzione e con la curiosità insanabile su come sarebbe evoluta la sua scrittura (già di per sé in costante evoluzione dall'esordio del 1980). Al di là di critiche, polemiche, “scazzi” o revolverate, è forse questo il motivo principale per cui i libri di Tondelli, più che essere gettati dalla finestra, andrebbero ripresi in mano e riletti. Proprio alla luce di questo quarto di secolo, passato su di noi con la velocità delle grandi nuvole bianche che attraversano il cielo d'Emilia. Un'Emilia sempre meno postmoderna. Un'Emilia sempre meno paranoica. Perché, in fin dei conti, ciò che resta è il dato di fatto che «sulla mia terra semplicemente ciò che sono mi aiuterà a vivere».
Con buona pace degli epigoni, dei tempi andati, degli amarcord non consumati e dei supposti “generazionalismi” mal digeriti.
Andrea Gratton