La porta
di Gianluca Moiser
C’è una sola porta che permette di entrare in questa stanza. E una finestra. Ma dalla finestra è impossibile arrivarci: siamo al sesto piano. Se tu fossi un supereroe ci potresti arrivare con un balzo, dovresti soltanto gridare: “Giravolta spaziale!”. Ma lo so, non esistono, i supereroi. E tu, del resto, non vuoi certo entrare nella mia stanza.
C’è una sola porta e non si apre mai. Giorni, mesi, anni. Io lo so cosa c’è al di là di questa porta.
E sono sicuro che non mi piacerebbe.
C’è una sola porta, è di metallo pesante. Immagino che aprendosi farebbe un rumore infernale, come quello dei portoni arrugginiti di un umido castello scozzese.
Ma lo immagino soltanto, non so se sia davvero rumorosa. E non sono nemmeno mai andato in Scozia, me li immagino soltanto, i castelli scozzesi.
Però a volte apro la finestra, e li sento. Sono fuori e mi chiamano. Sono tanti, tutti uguali. Alcuni sembrano gentili. Ma nemmeno loro aprono la porta. Nessuno vuole davvero entrare, nessuno. È perché siamo diversi, è perché io non sono come loro. E a volte mi sento solo. Perché sono solo. Ma non triste. So che mi disprezzano, che mi giudicano. Quelli al di fuori, oltre la porta. Io so che se uscissi da questa stanza potrei essere come loro, entrerei nel loro mondo. Assomiglierei a loro, poco alla volta.
Non mi perdonano di starmene chiuso qui, ma io non li odio per questo. Li guardo: sono ordinati, si muovono insieme, sono vestiti in modo simile. Li vedo dalla mia finestra, li vedo e li sento.
Loro non mi vedono. Lo sanno che sono qui ma non mi vedono perché non mi vogliono vedere, perché non mi guardano. Io per loro sono strano. Forse hanno paura di me, sempre chiuso nella mia stanza. Non per mia scelta, non l’ho deciso io. Mi sono sempre trovato qui, in questa stanza. Lo so che gli altri vivono in altri edifici, in stanze che hanno colori diversi, profumi diversi. Lì si sentono suoni che non assomigliano a quelli che sento io. Lo so perché me lo dicono gli altri. Quelli che si avvicinano soltanto alla porta, ma non entrano. E mi raccontano ciò che vedono fuori, ciò che sentono e che anche io dovrei vedere e sentire. A volte credo che mi vogliano fare vergognare perché vivo qui. Mi parlano ad alta voce: vogliono che io senta. E mi chiamano, vogliono che apra la porta e che entri nelle altre stanze. Con loro, forse. Alcuni sembrano davvero buoni, la loro voce mi piace. Altri no, mi disprezzano perché non esco ma io non voglio uscire e lasciare la mia stanza. E penso: “Perché non provano ad entrare e a fermarsi per un po’ qui?” Ci sono tantissimi oggetti, in questa stanza. Ci sono oggetti taglienti, pericolosi: a volte non me ne ricordo e mi procuro dei tagli. Profondi, sanguinanti. Ci sono tantissimi oggetti. A volte credo di farlo apposta, di toccarli per vedere il sangue sulle mie dita. Lo guardo e non piango. Mai. Se mi sentissero piangere direbbero che hanno ragione loro, che dovrei uscire da questa stanza. E allora io guardo il mio sangue e non piango. Ci sono tantissimi oggetti. E ci sono anche dei quadri meravigliosi, alle pareti. Hanno dei colori che non ritrovo nel mondo che vedo fuori dalla finestra, Forse per questo non voglio lasciare la mia stanza, perché non voglio lasciare i suoi colori. Perché gli altri non entrano a vedere i colori di questa stanza? Se solo entrassero li potrebbero toccare, sentire, annusare. Sono colori forti, sono colori delicati. Sono colori che loro non conoscono nemmeno. Mi dispiace. A volte mi fanno pena perché non vedono i colori di questa stanza. E mi sembrano tristi, guardando da quassù. Forse è per via dei colori, dei colori che non vedono.
Ma dicono che dovrei smettere di guardare i colori che mi piacciono, che dovrei aprire la porta e uscire per guardare i colori che ci sono fuori. Quelli che non mi piacciono, quelli che rendono tristi gli altri. Non li voglio, quei colori.
Mi detestano per questo, perché amo i miei colori.
A volte sono orgoglioso di starmene chiuso qui da solo, a volte invece vorrei compagnia. Ma so che saranno contenti solo se aprirò la porta, se uscirò e scenderò dalle scale per vivere nelle loro stanze, nelle loro case, nelle loro strade. Ma sono sicuro che poi non riuscirei più a ritornare indietro, a ritrovare la mia stanza. È questo che vogliono, che io non torni mai più qui dentro. Ma perché? Io credo di saperlo: sono invidiosi. Sono invidiosi di me perché vivo qui dentro e vedo dei colori che loro non vedono. E perché non piango mai, loro spesso, invece. Li vedo da qui, ormai riesco a cogliere anche solo la tristezza nei loro sguardi. Dalla finestra. Sembra impossibile ma anche a questa distanza vedo se sono tristi. In realtà non lo capisco dai loro occhi ma da come si muovono, non so spiegarlo meglio. Li osservo da tanto. Ma non dovrebbero odiarmi per questo, credo. Non so piangere. Forse questo è grave, se non so piangere. Se non sono triste non sono un uomo, forse. O forse il mio modo di piangere è diverso dal loro, non potrebbe essere così? Se vedo dei colori che loro non vedono, forse anche le mie lacrime sono diverse dalle loro, hanno un sapore diverso.
Da dietro la porta mi raccontano che fuori il mondo è bellissimo, che devo desiderare di entrarci. Ma non sanno che io guardo sempre dalla finestra e lo vedo: il loro mondo non è bellissimo. La settimana scorsa ho visto due uomini che si avvicinavano, poi si sono colpiti, poi uno è andato via. L’altro no. È rimasto sulla strada e la gente ha guardato. Non era felice, quell’uomo. E la gente ha guardato e poi è arrivata altra gente. L’uomo è rimasto a terra. Non si è più rialzato, quell’uomo.
Io non voglio uscire dalla mia stanza, non voglio camminare in quelle strade. Non ci si rialza, a volte, quando si cade in quelle strade. Qui è tutto colorato, è soffice, ecco.
Non voglio uscire da qui. Non voglio incontrare chi sta fuori. Lo dico sempre, perché non lo capiscono?
A volte penso che se aprissi questa porta troverei un’altra persona, in una stanza simile a questa, che forse sta pensando le stesso cose che penso io. Potrebbero esserci tante persone come me chiuse in stanze simili alla mia. Tante, che guardano dalla finestra
Ma preferisco non aprire, non ora. Voglio restare in questa stanza, dove nessuno vuole fermarsi. Ma riesco a capirli, davvero: nemmeno io vorrei trovarmi nelle loro stanze, nelle loro strade. Forse è così, nel mondo ci sono tante stanze tutte diverse. E noi non possiamo capire perché gli altri vivano nelle loro stanze e non desiderino le nostre.
Io non lascerei mai la mia stanza. Mai.
Ipotesi di racconto in versi
di Patrizia Garofalo
Finestre ermeticamente chiuse
impediscono
ai respiri, alle parole, ai rumori
di uscire e perdersi.
Questa stanza li raccoglie disordinatamente.
Finalmente una storia
chiusa
scritta per impedire al tempo di sciuparla.
Oggi non è bastato niente
per non farmi morire un po’.
Mi abbandono a quel sole
che vedo occhieggiare
tra i rami di un mandorlo, vicinissimo al mare.
Secoli
trascorsi sopra di me,
sopra questa sabbia
sopra quest’acqua
verso la quale
avanzo desiderosa di non far rumore.
Una donna confusa
nelle scorticature del tronco
avvizzita e prosciugata
forse dall’acqua.
“hai caldo?”
Mi tuffo,
abbozza un sorriso compiacente
come davanti ad un bambino
che abbia compiuto un gesto buffo
del quale vorrebbe però riconoscimento.
Un racconto di Conrad.
Bevo quell’ondata
come allora quando lo lessi.
Il tempo è un procedere lento
verso il mare.
Il respiro che sento
è quello vero.
Senza rantolii
arriva a chi amo
come un orgasmo continuo
di un mondo che mi stupisce
ogni attimo.
È vero tutto
anche quest’acqua
che tocco con la pancia
che bagna i miei capelli.
E tu?
Mi diverto a disegnare
cose strane sulla sabbia
e a farle cancellare dall’acqua.
I segni disordinati
sono parole
e affidarle al mare
è entusiasmante.
Sono l’immagine frantumata
del mio volto di donna
mai trovato.
È come se tutto il mondo
mi accogliesse in un linguaggio strano
come quello di questi segni.
È come se
l’unica storia della mia vita
fosse stata scritta
questa sera.
La donna mi allunga una mano piena di foglie
traccia un segno prima nell’aria e poi nell’acqua
si cancella sempre tutto
e tutto torna a ripetersi uguale.
È come se mi scudisciassero a sangue.
La luce proietta
ombre uguali sul muro.
Ritrovo quel segno sul mio cuscino.
Lo abbraccio perché è l’unico modo per non vederlo.
Suonano alla porta
ed io non ricordo più le parole degli uomini.
Riesco solo ad abbracciare chi entra.
Torre Astura, 21 marzo 1973