Murale
Torno da un breve soggiorno su un’isoletta sbattuta dal vento, col suono incessante dei canneti che ancora mi fischia nelle orecchie. Prima di affrontare il lungo, infido rettilineo, penso di prendermi una pausa. Parcheggio l’auto in una traversa, all’ombra di un capannone, e sgranchisco le gambe. Sulla strada traffico lento e costante, senza strappi e senza intoppi.
Il muro del capannone, intonacato di bianco, è tutto striato dallo sgocciolamento del tetto di lamiera. La fantasia corre ad Alcatraz, alle inferriate bituminose che segmentano la luce del sole. Ed io dietro alle sbarre. Con i fusò grigi e la t-shirt a strisce grigie e nere che ricorda l’uniforme dei carcerati.
Ho una fame da lupo e la gola chiusa. E cammino avanti e indietro lungo il muro del capannone senza mai guardare l’orologio. Il tempo non conta, nei penitenziari.
Mi ci vorrebbe una sedia. Una sedia leggera, pieghevole, resistente. Posso averla. Inizio a costruirla sul muro con un carboncino, solo quello ho trovato sotto un sedile della macchina.
Tipo Ikea. Comoda, lineare e sobria. Resto in piedi a fissare la sedia come se mi dovesse rivelare qualcosa. La sedia non parla, anche lei aspetta.
Alla fine mi stanco. Salgo sul muro e siedo composta, le spalle erette contro lo schienale di tela. Il sole sta facendo il suo giro, l’ombra della tettoia avanza sul muro.
Aspetto, chiusa nella cella del mio pensiero ossessivo.
La disperazione mi arriva con un rigurgito alla bocca e mastico vendetta. Ma c’è tempo.
Mi rilasso, le spalle curve, le mani tra le ginocchia. Come un “detenuto in attesa di giudizio”.1 Un bel film, amaro come il fiele.
Mi volto di fianco, l’intelaiatura della sedia mi sta segando le gambe.
Forse dovevo farmela di legno, ma mi mancava il colore. E chi lo dice poi che il legno sia meno rigido dell’alluminio? Forse meno freddo, questo sì, ma siamo a giugno, fra qualche giorno inizia l’estate…
Il mare.
Mi raggomitolo sulla sedia sognando il mare. Che mi culla, che mi parla, che mi accarezza e placa. Ma sto davvero parlando del mare?
Il capo ciondoloni, scuoto la testa come fanno i cani per sgrullarsi l’acqua di dosso.
Diamine, non sono un cane.
Siedo eretta come sul trono una regina. Con la mia corona di spine e i piedi scalzi di ancella. Così resto, come inchiodata alla vergine di Norimberga.
Poi cado in ginocchio. E recito tutto il rosario della mia pena. Ogni grano un nodo d’illusioni e menzogne. Grani duri, impossibili da frantumare. Stanno consumando le mie dita che non ce la fanno a starne lontane.
Debbo distrarmi. Afferro la sedia e la slancio al cielo. Terso, nemmeno una nuvola.
«Che io possa esser dannato se non ti amo… E se così non fosse non capirei più niente… Tutto il mio folle amore… lo soffia il cielo…».2
Maledizione. Giù la sedia! E vi scivolo sotto, a ripararmi dal cielo e dalla follia, mimetizzata col muro a strisce con la mia anima fatta a strisce.
Poi len-tis-si-ma-men-te risorgo.
In piedi, sulla sedia.
A che fare? Non sono per questo più alta, non sono per questo più vicina a me stessa e al mondo.
Però vedrei più lontano, se non ci fossero così tanti muri a impedire la visuale. E che cosa potrei vedere, oltre case e palazzi? Altre mura e forse a distanza, troppa distanza, il luccichio del mare…
E pinne di squali, che ormai stanno invadendo le coste.
Poveri squali, anche loro senza più orientamento.
A terra, con la sedia poggiata sulla testa.
Le nostre nonne portavano conche e canestre sulla testa, in perfetto equilibrio.
Si bilanciavano con le mani sui fianchi come acrobati al circo.
Fiere e bellissime, già vecchie a trent’anni.
Sono stanca, devo riposare.
In piedi, dando le spalle alla sedia, osservo l’ombra che già copre metà del muro. La giornata sta passando.
Mi serve qualche minuto d’aria.
Allontano la sedia, articolo le gambe. Forse ce la faccio.
Mi sfilo la t-shirt e prendo a strofinare con forza. Cancello la donna in piedi con la sedia accanto, la donna di spalle che osserva l’ombra sul muro, la donna con la sedia sulla testa, la donna in piedi sulla sedia. E continuo, cancellando una ad una tutte le figure, lasciando solo la prima e l’ultima: la donna che fissa il muro desiderando una sedia e la sedia vuota dall’altra parte. E tra il desiderio e l’oggetto uno spazio tutto da riempire.
Il carboncino è finito, firmo il murale con le dita nere, che non sgraneranno più rosari penosi.
Mi lavo a una fontanella, infilo una camicia pulita, mi rimbocco le maniche, salgo in macchina.
L’attesa è finita.
Faccio una rapida inversione e riprendo la strada da cui sono giunta. L’isola mi reclama, con i suoi canneti impazziti che gemono al vento e le onde che assaltano gli scogli in perpetua contesa. È qui la mia libertà, nella segregazione volontaria su un palmo di terra, non per isolarmi ma per ritrovarmi nelle leggi aspre e immutabili alla base della vita, che mi riporteranno forse un giorno a ricercare la terraferma.
Maria Lanciotti
1 Film del 1971 diretto da Nanni Loy e interpretato da Alberto Sordi.
2 Domenico Modugno, Cosa sono le nuvole.