Amal, la speranza migrante*
Nacque nel cavo del grande albero, dove nel passato le donne andavano a partorire di notte. Aveva la pelle color rame e folti capelli nerissimi. Gli anziani, appena la videro, risero con le bocche sdentate e così la salutarono: «Sei l’ultima della stirpe: ti chiameremo Amal». Un nome che, nella lingua locale, stava a significare ‘speranza’.
Il piccolo villaggio contava ormai pochissimi abitanti e si andava lentamente estinguendo man mano che gli anziani venivano portati nella radura per l’ultimo rito e nessuno arrivava a sostituirli.
La madre di Amal era la sola donna fertile della comunità e lo sarebbe stata ancora per poco: aveva i capelli bianchi e le spalle non più erette, ma conservava nello sguardo l’ardore e la fierezza propri della sua razza.
Quella figlia era il frutto della sua maturità e l’aveva atteso per tutta la vita, senza mai smettere di crederci. Non sapeva chi fosse il padre, forse il Vento impetuoso che sempre le accendeva nel petto il desiderio doloroso e dolcissimo di farsi seme e culla. O forse del Fiume, che sempre la trascinava con sé nel suo serpeggiante viaggiare. O del Silenzio, che racchiudeva in sé tutte le voci senza suono.
Nel villaggio tante storie si narravano di nascite miracolose, e nessuno aveva mai dubitato che tutto potesse accadere di quanto si credeva possibile. Amal era la vita stessa, che si rimetteva in gioco con tutta la sua energia e le infinite possibilità.
La bambina era il fulcro del villaggio. Attorno a lei si radunavano le creature del bosco e dell’aria, e mani stanche battevano la pelle consunta dei tamburi.
Tutti sapevano che da lei dipendeva la continuità della loro antica cultura. Ne fecero un libro vivente, scrivendo ognuno nell’anima e nella mente della fanciulla tutta la conoscenza acquisita nel tempo dal loro popolo, di cui erano gli ultimi depositari.
Amal apprendeva ogni cosa senza sforzo, senza mai stupirsi di nulla, come se già sapesse.
Il Vecchio Capo, e suo nonno, le rivelò i segreti delle erbe e della luna, il linguaggio dei fiori e delle stelle, il significato dei segni lasciati dallo strisciare dei rettili e dal picchiare dei rapaci. Le insegnò a leggere tra la cenere parole mai scritte e mai pronunciate: parole nuove per nuove comunicazioni.
Le anziane le dettarono lentamente ricette e consigli che Amal mandò a memoria. Apprese come cucinare ogni alimento senza disperderne le proprietà e senza alterarne consistenza e sapore; come preparare e utilizzare tisane, decotti e infusi utili alla salute e comunque confortevoli specialmente se sorbiti in compagnia; come tessere fibre e conciare pelli per ricavarne abiti e calzature, e come preparare i colori caldi per le decorazioni e i disegni tipici che distinguevano ogni loro manufatto; come realizzare monili con i materiali più vari, e ricavare strumenti musicali da ciò che la Natura mette a disposizione per amplificare la sua potente e inimitabile voce. E tante altre cose le affidarono gli anziani, tradizioni e leggende del loro popolo, spiritualità e riti sacri e i racconti che da millenni si ripetevano uguali e sempre diversi, tutti veri e tutti inventati.
Arrivò il giorno della partenza.
Amal partì all’alba, carica di benedizioni e di responsabilità, e prese per il sentiero fra le montagne. Seguì il corso del fiume, e scese a valle.
Andò a piedi, viaggiò in pullman, in treno, per nave, salì su un aereo.
E si ritrovò dall’altra parte del mondo.
La sua pelle color rame si mescolò alle pelli di altro colore, e s’immise nel flusso dell’umanità in cammino.
A poco le servì l’antica mappa tracciata dagli avi nel loro lungo peregrinare: seguì piuttosto la direzione del vento che la spinse, tra avverse correnti, verso l’Europa e poi in Italia.
Si ritrovò a Roma, e non si sentì sperduta: nella città dell’accoglienza nessuno si sentiva straniero.
Le provviste erano finite, la piccola somma di denaro che gli anziani avevano messo insieme era stata spesa per il viaggio. Doveva procurarsi da vivere, e non voleva separarsi dai pochi oggetti di valore che le erano stati donati dalla sua gente, fra cui il ciondolo di oro rosso che la madre si era tolta dal collo per appenderlo al suo: il dio Sole le scaldava il petto.
Trasse dal suo bagaglio alcuni strumenti a fiato e a percussione realizzati con il bambù e le zucche della sua terra, incisi e decorati secondo le antiche tecniche, e sceltosi un posto tranquillo, all’angolo di una piazza confinante con un parco, prese a suonare il flauto. Scorsero le immagini, nei suoi occhi chiusi, della sua comunità stretta attorno al fuoco, dei campi di mais devastati dalla siccità, dei sentieri polverosi senza alcuna orma; ma anche le immagini del sole nascente fra i picchi delle montagne, del volo del condor nella luce del tramonto, degli alberi rigonfi di nidi. E sentì il tuono del suo sangue farsi canto e il nascosto dolore farsi danza.
Quando tornò ad aprire gli occhi, sfinita e rigenerata, si trovò circondata da una piccola folla di persone, silenziose e commosse.
Capì in un baleno che il tempo frenetico della grande città si era fermato per condividere le sue emozioni, e ripresa energia iniziò a scuotere le maracas e a formulare la melodia della profonda spiritualità e della lenta meditazione.
Quando scese la notte, sotto un cielo troppo illuminato per mostrare i suoi astri, Amal si spostò dalla piazza e cercò un angolino nel parco. Rifletté molto, prima di addormentarsi, e sentiva che quella era stata una buona giornata ricca d’indicazioni.
Al mattino riprese il cammino e conobbe altre piazze. E altra gente si fermò attorno a lei, attratta dalla sua musica e dal suo canto. Si era tolto il morbido copricapo e l’aveva poggiato a terra, accanto alle altre sue cose, e si accorse stupita che si stava riempiendo di monetine. Imbarazzata, capì che quello era il modo dei bianchi di mostrare apprezzamento.
Quando stava radunando le sue cose per allontanarsi e cercare un posto per passare la notte, un giovane le si avvicinò, imbracciando una fisarmonica. «Oggi mi hai rubato la piazza, ma te ne sono grato: la tua musica mi ha portato molto lontano da qui, e più vicino a me stesso».
Non capiva, Amal, il senso delle parole, ma il tono di quella voce esprimeva amicizia, esprimeva fratellanza.
Si chiamava Daniele ed era un cantastorie.
Viveva tra la sua gente, ma non riconosceva il suo popolo. Negli ultimi decenni qualcosa era accaduto che aveva indotto tante persone a vendersi l’anima, in cambio di giocattolini costosi, dannosi e frivoli.
Parlavano lingue diverse, ma presto iniziarono a comunicare attraverso la musica. Il linguaggio universale che trapassa ogni confine e barriera, che dà voce alle emozioni indicibili.
Capirono ben presto che erano animati dallo stesso sogno: mettere al servizio di una buona causa il loro talento e la loro passione.
Si separarono, per seguire ognuno la propria strada. Portando ognuno con sé un poco dell’altro.
Amal partì spedita per la sua avventura. L’incontro con il cantastorie l’aveva introdotta nella mentalità corrente del luogo, fornendole suggerimenti utili ad intessere relazioni necessarie. Aveva anche appreso che con l’arte di strada si può vivere, sentendosi gratificati e non mortificati.
Pensava al suo popolo che le aveva affidato il compito di portare la loro cultura oltreoceano perché non finisse con loro, e iniziava a delinearsi nella sua mente un progetto bello, così grande da spaventarla.
Intorno a Roma sorgevano i Castelli Romani, lussureggianti colline su cui stavano aggrappate antiche cittadelle ricche di storia e di tradizioni. Mentre andava di paese in paese, annunciandosi con la sua musica che presto radunava un piccolo pubblico, Amal esplorava il territorio in cerca di un luogo che immaginava come una grande prateria ricca di pascoli.
Arrivò l’inverno, e Amal trovò rifugio in una piccola comunità circense, accampata nella periferia di un paese ai piedi di un’imponente catena montuosa. Da lì partiva per lunghe escursioni, alla ricerca del luogo ideale.
E una mattina freddissima, vide apparire tra la nebbia che tutto offuscava, il grande albero sulla collina.
Era giunta. Nell’immensa vallata pascolavano i cavalli e greggi brucavano intorno. Tutto il suo popolo giubilava dentro di lei. Questa sarebbe stata la loro terra, qui avrebbero montato le loro tende, questo sarebbe stato il cuore della nuova rinascita.
Il sogno si fece chiaro e reale e Amal seppe d’improvviso come muoversi per concretizzarlo.
In quel momento una musica familiare inondò la vallata. Arrivarono in fila i suonatori con la quena, il charango, il bombo, il requinto, la bandola e altri strumenti dal suono magicamente sintonizzato con il fermento incessante della vita. Provenivano dai villaggi in sofferenza della sua stessa regione, anche loro portatori della voce dei loro antenati. Amal si unì ad essi, e senza fare domande né darsi risposte si avviarono lungo la strada che portava al Palazzo del più vicino paese.
Si presentarono chiedendo udienza, e dopo una lunga e paziente attesa furono introdotti in una stanza dai soffitti altissimi e riccamente arredata.
Il Sindaco si alzò dalla sua massiccia poltrona e chiuse la porta, fece tutti accomodare e chiese cosa potesse fare per loro.
Difficile fu il dialogo ma si compresero. Il Sindaco promise che si sarebbe subito attivato con il presidente del Parco Regionale per far ottenere loro il permesso di occupare un angolo di quel territorio con un accampamento permanente.
Era un Sindaco giovane e rampante, capiva il valore di un tale inserimento: avrebbe richiamato turismo e portato ricchezza.
Non si chiarì in quell’incontro il senso della parola “ricchezza”, ma diversamente fu inteso dalle due parti: chi ci vide un ritorno d’immagine ed economico, e chi la possibilità di tornare ad essere liberi e in accordo con la Natura e con la civiltà occidentale, dopo cinquecento anni di ingiurie e massacri.
Passò del tempo e l’Amministrazione locale sempre s’impegnava a parole e mai manteneva. Quella terra promessa non veniva mai assegnata sulla carta, ma solo di volta in volta “prestata” per creare folclore. Non si voleva interrompere il dialogo con le istituzioni, fidando sempre nella ragionevolezza umana, ma s’ingannarono ancora una volta sulla natura dell’uomo bianco e per ammetterlo ci vollero parecchi anni. Infine, dopo tante battaglie perse, la trattativa decadde per mancanza d’interlocutori.
Arrivarono da ogni parte del mondo gli ultimi testimoni di una civiltà destinata a scomparire, se non fosse stato per il prepotente bisogno di mantenerla viva e non solo di tramandarla, e si svolse l’ultima Festa della Comunicazione, il Rimanakuy.
Dopo momenti di spiritualità e introspezione vissuti in piena armonia anche con gli ospiti del campo, ormai affiatati dopo anni di frequentazione, arriva il momento di riprendere il cammino. Il loro discorso è stato frainteso, i patti non sono stati rispettati. Ma non c’è posto nel loro bagaglio per amarezze infruttuose e misere rivalse. E nulla è stato vano delle tante esperienze vissute in tutto quel tempo, anche se la sconfitta parrebbe il risultato finale.
Si chiude una pagina e un’altra se ne apre. Intanto si sono ritrovati e sanno di essere un popolo forte, un popolo preparato, non più gli innocenti “selvaggi” da accalappiare con l’inganno delle forbite parole. Tra loro ci sono uomini e donne che rivestono ruoli importanti nella civiltà globalizzata, e giovani universitari che si stanno formando alla scuola europea per poter poi spaziare in ogni campo. Ci sono tra loro sciamani e uomini di medicina antica e studiosi dalla propria storia. E c’è lo spirito forte dei padri che li tiene uniti e compatti, una guida che mai li abbandona.
Torneranno alle loro montagne e alla loro foresta, e ricostruiranno il loro villaggio, attrezzandone una parte per probabili ospiti. Delusi ma non battuti: che sia qui o sia là il sogno esiste e resiste, e sempre ci sarà un fuoco attorno al quale sedersi e dialogare, fra genti di pelle diversa e di uguale umanità.
Maria Lanciotti
* Racconto ispirato a personaggi, luoghi e circostanze reali. Finalista al Concorso Nazionale Letterario “I sogni possibili” (PerFormat, PerFormat Salute e Sidebook Editore).