L’Avana è una città di grida e di sussurri. Chi si sofferma nel suo baccano, non riuscirà mai ad ascoltare il suo bisbiglio.
Questa è una città che affoga le sue pene nell’alcol
Essere dell’Avana non significa essere nati in un luogo, significa portarsi quel luogo sulle spalle, non riuscire a staccarsene. La prima volta in cui mi resi conto di appartenere a questa città, avevo sette anni. Mi trovavo in un piccolo villaggio di Villa Clara e cercavo di raggiungere un frutto di guaiava su un ramo, quando un nugolo di ragazzini del posto circondarono me e mia sorella. “Sono dell’Avana! Sono dell’Avana!”, strillavano. In quel momento non riuscimmo a capire tutta quella confusione, ma con il tempo ci rendemmo conto del triste privilegio che ci era stato concesso. L’essere nate in quest'urbe decaduta, in questa città la cui maggior attrattiva è ciò che poteva essere, non ciò che è.
Sono del tutto urbana, cittadina. Sono cresciuta in una zona del quartiere di Cayo Hueso, dove gli alberi più vicini si trovavano a più di cinquecento metri. Mi sento figlia dell’asfalto, dell’odore di cherosene, degli stendini che gocciolano dai balconi e dei condotti fognari che tracimano di tanto in tanto. Questa non è mai stata una città facile. Nemmeno nelle cartoline per i turisti, con i loro colori ritoccati, si riesce a vedere un’Avana confortevole e comprensibile.
A volte non voglio percorrerla a piedi, perché mi fa male. Risalgo Belascoaín, il mare mi resta alle spalle con quella brezza che conosco così bene. Arrivo all’angolo con calle Reina. C’è una chiesa in stile gotico, che quando ero piccola mi dava l’impressione di perdersi tra le nuvole. Lì vidi per la prima volta un albero di Natale quando avevo diciassette anni. Procedo attraverso i portici, facendo un salto qui e un altro là. Rigagnoli d’acqua scorrono da qualche scala e una signora cerca di vendermi alcune creme di latte che hanno lo stesso colore della strada.
Riesco già a vedere il semaforo di Galiano, ma il passo rallenta perché ci sono molte persone. Un poliziotto gira l’angolo e qualcuno si nasconde dietro le porte o entra nei negozi come per comprare qualcosa. Quando la guardia se ne sarà andata, torneranno a offrire la loro mercanzia in un brontolio. Perché L’Avana è una città di grida e di sussurri. Chi si sofferma nel suo baccano, non riuscirà mai ad ascoltare il suo bisbiglio. Le cose più importanti si dicono sempre con un segno, un gesto o un semplice scatto delle labbra che ti avverte, “attenzione”, “sta arrivando”, “seguimi”. Un linguaggio sviluppato in decenni di clandestinità e illegalità.
Calle Neptuno è vicina. Ho sentito una coppia di anziani dire davanti a una facciata: “Eh, qui non c’era…?”. Ma non sono riuscita a sentire la fine della frase. Meglio così, perché L’Avana è una sequenza di rimpianti, di ricordi. Quando uno la percorre a piedi, è come se transitasse lungo il sentiero delle perdite. Dove viene demolito un edificio, si lasciano le macerie per giorni, per settimane. Poi nel vuoto che è rimasto costruiscono un parcheggio, o sistemano un chiosco metallico per vendere saponi, chincaglierie e rhum. Tanto rhum, perché questa è una città che affoga le sue pene nell’alcol.
Arrivo fino al Malecón. In meno di mezz’ora ho percorso la parte di città che durante l’infanzia mi sembrava la contenesse tutta. Perché ero una “guajiradel Centro Avana”, di quelle che pensano che dopo calle Infanta inizino “le zone verdi”. Con il tempo ho capito che questa capitale è troppo grande per conoscerla. Ho compreso anche che la stessa sensazione di dolore la provano quelli nati a Diez de Octubre, al Cerro, al Vedado o a Mariano. È lo stesso, L’Avana mostra le sue ferite in ogni quartiere.
Tocco il muro che ci separa dal mare. È ruvido e caldo. Dove saranno quei ragazzini che durante la mia infanzia – in un minuscolo villaggio – mi guardavano con stupore perché ero dell’Avana? Vorranno portare questo fardello? Saranno finiti anche loro in questa città, a vivere tra le sue discariche e le sue luci? A loro fa male quanto a me? Sono certa di sì, perché L’Avana non è soltanto quella collocazione scritta nel nostro documento d’identità. Questa città è una croce che ti porti da tutte le parti, un luogo che una volta vissuto non ti abbandona più.
Yoani Sánchez
(da Generación Y, in 14ymedio, 16 novembre 2014)
Traduzione di Silvia Bertoli