Si è potuto vedere a Lodi, nei week end 17-19 e 24-26 ottobre, il “Festival della FOTOGRAFIA ETICA”, distribuito in diverse sale in lussuosi e storici palazzi del centro storico.
È stato imperdibile per i nostri occhi, che devono aprirsi.
I fotografi che hanno presentato i loro lavori sono la maggior parte dei freelance, i reportage che hanno portato sono molto interessanti, vari, sociali, civili appunto, e mostrano diverse finestre di angoli vicini e lontani del nostro mondo. Gli autori sono stati presenti anche per le visite guidate. I lavori erano divisi in diverse sezioni dedicate: alla violenza delle donne nel mondo, alle ONG, al report award, allo sguardo italiano sul mondo.
Insieme negli altri spazi pubblici della città altri lavori ideati e realizzati dai soci del Gruppo Fotografico Progetto Immagine. Una città di fotografie, il mondo a Lodi.
Ho iniziato la visita del Festival domenica 19, con lo stesso biglietto di 7 euro sarei potuta ritornarci, per concludere la mostra. Trovo il costo onesto, e la possibilità di ritornarci ancora più onesta. Solo un peccato che le mostre del festival ufficiale non siano rimaste aperte per tutta la settimana fra i due week end, perché il pubblico le avrebbe maggiormente potute fruire...
Gli occhi dell’anima all’ascolto e il mio viaggio si è incamminato in queste realtà:
Il Genocidio del popolo Ixil in Guatemala (di Daniele Volpe) con il processo a Efrain Rios Montt colpevole dell’uccisione di 1.700 civili indigeni Maya, l’esumazione dei corpi, i volti dei famigliari nell’aula di giustizia, e gli abiti e i colori della popolazione, che sembrano stonare e rafforzare insieme la tragedia. Silenzi.
Il South Africa’s Post-Apartheid Youth (di Krisanne Johnson) con la generazione Rainbow nation, figlia dei genitori che hanno combattuto contro l’apartheid, documenta la generazione nella quotidianità, i quartieri degradati, le fughe di casa degli adolescenti, la ricerca della loro identità sessuale, gli attivisti, le giovani maternità, le coppie miste, le partite di calcio, i funerali ballati, la cultura kwaito e la testimonianza di una madre africana: «È straordinario come la vita diventi così velocemente storia, così come è straordinario quanto velocemente la nostra lotta sia stata dimenticata dai giovani. Tutto ciò è preoccupante, ma forse è anche un bene». Urli e grida.
L’I Just Want to Dunk (di Jan Garup) con le giocatrici di basket a Mogadiscio, la guardia per proteggerle dagli attacchi per quello che stanno osando, la fine degli allenamenti dove rimettono il velo abbinata alla tuta con le due strisce bianche. “Voglio fare una schiacciata” dice una giocatrice, che nel basket si sente felice e libera. Sport esistenziale.
Il Jeddah Diary (di Olivia Arthur) con le donne saudite in bilico tra la modernità e le tradizioni, riprese con una luce riflessa per celare parzialmente la loro identità, i muri alti nei perimetri delle case a nasconderle, con l’abaya in cucina o nei luoghi pubblici insieme ai loro bambini. Buie.
Il Beautiful Child (di Laerke Posselt) con le bambine dalle ciglia finte, la crema abbronzante, i bigodini e il trucco a due anni per partecipare ai concorsi di bellezza, negli USA. Questi concorsi impongono alle bambine di vivere degli stessi ideali degli adulti. Bambole vere.
L’In/Visible (di Ann-Christine Woehrt) mostra nella cripta della chiesa, ci porta nel nascondiglio delle donne rovinate dagli acidi, che rimangono ricoverate 3-5-7 mesi, nell’uso dei massaggi e delle creme per non peggiorare le cicatrici, che scelgono di nascondersi, di coprirsi, di spogliarsi al mare dove non le vede nessuno, o di ballare, fino a diventare insegnanti di comunicazione. Scottanti.
Il Taken (di Meeri Koutaniemi) con “Sina che grida per il dolore” e “sei donne che tengono Nasirian perché si dimena a causa del dolore”. Sottoposte alle infibulazioni. Che dio devo pregare?
Il Libano, una marea umana di rifugiati (di Giada Connestrari) con il Gathering: il raggruppamento in uno dei tanti non luoghi disseminati in Libano, dove alcune famiglie siriano-palestinesi trovano spazio, sopravvivenza nei garage. A terra.
Il Child-Witches of Kinshasa (di Gween Dobourthoumieu) con i bambini nelle strade di Kinshasa, organizzati in gang che vivono di espedienti, allontanati dalle famiglie perché creduti impossessati dal demonio. Insieme alcuni riti per scacciare il demonio dagli stessi. Mostra volutamente, credo, mostrata nella cappella degli angeli. Infernale.
La Life in War (di Majid Saeedi) con i bambini di Kabul che raccolgono la plastica nei rifiuti e che giocano negli stessi; il famoso gioco dei cavalli di legno per i bambini; la struttura psichiatrica di Heart dove i pazienti sono contenuti con le catene di ferro; il concerto di Farhad Darya solo per il pubblico femminile. Indietro.
La Young Patriots (di Oriol Segon Torra) con il campo estivo militare di Mogyorod in Ungheria, dove per una settimana i giovani adolescenti ungheresi vengono indirizzati alle nozioni riguardo l’ordine e la patria, con l’uso di armi e munizioni a salve “per imparare il suono della guerra”, materiale obsoleto ma funzionante. Quando la pace?
L’“Uncle Charlie” (di Marc Asnin) con le storie comuni raccontate nello scorrere della stessa vita del soggetto, questa è quella del marito di Mary, dell’abbandono alla vita di lei, della disperazione e della depressione che cade sulla vita di chi è rimasto. Quotidiano vicino.
Barbarah Guglielmana