Palazzo Fortuny a Venezia, una delle città più amate da Luisa Casati Stampa, palcoscenico delle sue stravaganti esibizioni, è la sede della prima straordinaria mostra dedicata alla “Divina Marchesa”, come la definì d’Annunzio: la donna che a inizio Novecento, con il trucco esagerato, le trasgressive ed eccentriche performance e una vita sopra le righe, fu capace di trasformare se stessa in un’opera d’arte, leggenda vivente, conturbante e sorprendente rappresentazione di modernità e avanguardia.
La caleidoscopica mostra dal titolo La Divina Marchesa – Arte e Vita di Luisa Casati dalla Belle Èpoque agli Anni Folli, è stata ideata da Daniela Ferretti, curata da Fabio Benzi e Gioia Mori e coprodotta dalla Fondazione Musei Civici di Venezia e da 24 ore Cultura, aperta fino all’8 marzo 2014.
L’esposizione conta oltre un centinaio tra dipinti, sculture, gioielli, abiti, fotografie di grandi artisti del tempo, provenienti da musei e collezioni internazionali, riuniti in quella che fu la casa-atelier di Mariano Fortuny che con le sue ricercate sete e famosi Delphos vestì, insieme a Paul Poiret, Erté e Leon Barks, i sogni e le follie di Luisa Casati.
Tra le innumerevoli amanti di Gabriele d’Annunzio, fu l’unica che egli stimò veramente, ammaliato per anni dal fascino inimitabile di quella donna che il Vate – come tanti altri – citò e ricordò in numerose sue opere.
Dinanzi al suo fascino e ai suoi favori s’inchinarono schiere di pittori, scultori, fotografi che la immortalarono.
Artisti che la mostra chiama a raccolta a ricordare la “Core dannunziana” – dark lady decadente ma anche musa di surrealisti, fauvismi, dadaisti e futuristi, facendone convivere mito e storia, vita e arte.
La Casati, infatti, non fu solo bizzarra ed eccessiva (dai pitoni veri al collo al nude look), spettacolare e trasformista, megalomane e narcisista: il percorso espositivo e gli inediti studi pubblicati sul catalogo le restituiscono una dimensione più consapevolmente “artistica”, rintracciando la sua attività di collezionista e restituendo alle sue azioni ai suoi mascheramenti una dimensione estetica che la rende un’antesignana dell’arte performance e della body art.
In pochi anni Luisa trasformò il suo volto nell’icona della belle dame sans merci: disegnato da profonde ombre nere, con pupille dilatate e rese lucenti dalla belladonna, le labbra dipinte di rosso scarlatto, i capelli tinti di rosso.
Dilapidò la sua immensa fortuna in travestimenti mozzafiato e in feste spettacolari di cui fu ideatrice e principale interprete, in case allestite come musei e nell’acquisto di opere d’arte. Morì a Londra nel 1957 nella più triste indigenza.
La mostra di Palazzo Fortuny si sviluppa negli ambienti della casa dell’artista che Luisa era solito frequentare, in un percorso che si fa denso di rimandi, evocativo di luoghi, personaggi ed emozioni.
Straordinaria è la collezione di lavori ritratti, che le furono dedicati o che lei stessa commissionò, che in mostra rievocano di volta in volta una delle tre “dimensioni” – performer, icona della donna vamp e strega – riconosciutele da Robert de Montesquieu nei suoi sonetti; così come l’adesione alla causa del futurismo e la passione quasi istintiva per la fotografia, arte capace di immortalare l’attimo e l’esibizione più azzardata, trasformando la realtà in leggenda.
È datato 1912 il ritratto della Casati che giunge dal Centre Pompidou firmato da Léon Bakst, il costumista dei Ballets russes, che da quello stesso anno creò per la marchesa scenografici abiti per le feste più mondane. Una passione per i mascheramenti che ritroviamo nel ritratto con piume di pavone di Boldini del 1911-1913 (Roma Gam) e nelle opere realizzate a grandezza naturale da Alberto Martini, provenienti da una collezione francese privata.
La Divina aveva stregato anche l’artista veneto, reclutato, quasi fosse un rinascimentale “pittore di corte” – come dimostrano i carteggi svelati nell’occasione e il corposo nucleo di lavori di Martini in mostra, alcuni dei quali inediti: ritratti in gondola o con pantere datati 1919-20, ritratti come la Serie dedicata alle farfalle notturne del 1912-15 o quello come Euterpe del 1931.
Nel percorso vi è anche il Teiteatro: l’utopica scena martiniana che la marchesa avrebbe voluto realizzare nel bacino di San Marco.
Le opere provenienti da collezioni francesi e inglesi di Alastair – il barone esteta amico di d’Annunzio – raccontano la dimensione di donna fatale, identificando la Casati con le immagini degli “idoli di perversità” allora di moda, da Messalina a Salomè, elaborati tra il 1914 e il 1919.
Ma è l’aspetto più “gotico” della marchesa, la sua ossessione per l’occulto e le pratiche magiche, a emergere con forza in mostra: nel suo delicatissimo doppio in cera del 1908, (Vittoriale degli italiani); nel ritratto di Romaine Brooks del 1920 in cui la Casati compare come un notturno pipistrello; in quello da sabba di Ignacio Zulonga (1923) proveniente da Zumaia e nel dipinto di Beltrán Masses del ’29 (Suňol Barcellona), dove Luisa appare come Eva felice di avvolgersi tra le spire del diabolico serpente.
La sua chioma fiammeggiante – quale autentica Musa – fuoreggia nel dipinto del ‘19 di Augustus Edwin John (Art Gallery di Toronto); Epstein nel busto di bronzo del ’18 la ritrae con capelli da Medusa; Paolo Troubetzkoy la consegna ai posteri in un gesso del 1910-15 e in un più tardo bronzo con uno dei suoi levrieri. Immaginifici sono il ritratto di Kees van Dongen, realizzato a Venezia durante un soggiorno del 1921 e proveniente dall’Art Museum di Milwaukee e la scultura in legno dell’artista polacco Sarah Lipska del 1930 dai Musées de Poitiers.
Il Vate – il cui rapporto con la Marchesa rivive nelle lettere inedite e nelle fotografie di De Mayer e Man Ray, rielaborate dalla stessa Casati e dedicate a d’Annunzio – è ricordato nei ritratti di Romaine Brook (Musées de Poitiers) e di Adolfo di Maria (Fondazione Venezia); la città dei Dogi d’inizio Novecento rivive negli oli di Boldini; il conte Montesquieu – altro dandy di quegli anni la cui casa parigina fu acquistata dalla Casati – è presente grazie al bronzo di Troubetzkoy dal Musée d’Orsay, mentre Gilbert Clavel s’affaccia nel ritratto realizzato dall’amico Depero che, suo ospite ad Anacapri, incontrò la musa futurista proprio nell’isola dove la marchesa aveva affittato Villa San Michele, trasformandola nel suo ennesimo palcoscenico di trasgressione e stupore.
“Occhi lenti di giaguaro che digerisce al sole la gabbia d’acciaio divorata”, disse di lei Filippo Tommaso Martinetti nella dedica che fece inserire da Carrà nel proprio ritratto da donare alla Casati nel 1915. Così Luisa Casati divenne sostenitrice e collezionista dei Futuristi.
Dalla collezione di Laura Biagiotti arriva in mostra un consistente gruppo di Giacomo Balla. Il trasferimento a Parigi agli inizi degli anni Venti ne fece l’Icona delle avanguardie.
La foto scattata da Man Ray nella quale gli occhi della Casati sfocano e diventano sei, per errore nello sviluppo della pellicola, colpì molto la nobildonna. Quella foto, presente in mostra, fece il giro d’Europa e divenne un’icona surrealista.
Anni di sperperi ridurranno Luisa Casati sul lastrico. Gli scatti rubati nel periodo londinese da Cecil Beaton – mostrano una donna ormai segnata dal tempo e dalle difficoltà, ma sempre artefice consapevole del proprio eterno immaginario.
Maria Paola Forlani