Giovanni Segantini (1858-1899), nacque ad Arco, in provincia di Trento, allora sotto il dominio asburgico, da famiglia poverissima. Rimasto orfano all’età di sei anni, visse a lungo fra ospizi e riformatori. Riparato a Milano, riuscì a frequentare i corsi di Brera ma li abbandonò per la sua ripulsa ad ogni forma di accademismo. Fra il 1878 e il 1881 frequentò gli scapigliati, quindi, nel successivo quinquennio si isolò in Brianza. Il richiamo della montagna, che gli restituiva i ricordi dell’infanzia, lo portò a trasferirsi a Savognino, nell’Engadina, fra il 1886 e il 1894, quindi fra i ghiacciai del Maloia, nel rifugio dello Schafberg a 2700 metri di altezza, dove all’improvviso morì. Per lunghi anni Segantini si adoperò «a conquistare il vero», com’era solito a dire, tanto che, l’uno all’altro accostati, i suoi dipinti compongono un poema della montagna, vigoroso e pregno di panico sentimento. Entrando infine in relazione con Vittore Grubiey aderì al Divisionismo, talora acconsentendo a raffigurazioni di tipo allegorico ma più spesso ponendo la nuova tecnica al servizio della rappresentazione dei suoi temi preferiti, con esiti di alta e sicura poesia.
Certo Segantini è artista da riguardare con estrema attenzione, come uno dei punti fermi della pittura italiana dell’Ottocento. E questo si dice perché, dopo la sua morte, molto è stato glorificato ma successivamente, anche rapidamente dimenticato, così da apparire di tratto in tratto, e tuttavia non meditato nei suoi valori, nella forza e nella grazia che insieme si fondono nell’immagine da lui evocata. Per cui non sarebbe inutile, per meglio capire l’uomo, rileggere un vecchio libro di Raffaele Calzini. Il romanzo della montagna appunto a Segantini dedicato: la sua fisionomia ne uscirà ben precisata, la genesi di tante sue opere maggiormente chiarita.
Ma per riscoprire meglio questo artista straordinario si è aperta a Milano, nella sede di Palazzo Reale una mostra a lui dedicata fino al 18 gennaio 2015, con oltre 120 opere, per una rassegna più completa mai realizzata in Italia. L’evento è stato curato da Annie-Paule Quinsac, grande esperta di Segantini, e da Diana Segantini, pronipote dell’artista, prodotto dal Comune di Milano – Cultura, Palazzo Reale, Skira editore in collaborazione con Fondazione Antonio Mazzotta.
Il percorso della mostra si apre con una sezione introduttiva di documenti, fotografie, lettere, libri, il busto di Segantini eseguito da Paolo Troubetzkoy e quello giovanile di Emilio Quadrelli, il ritratto di Segantini sul letto di morte, acquarello di Giovanni Giacometti, suo amico fraterno e padre del celebre scultore Alberto.
Segue una sezione preliminare con quasi tutti gli autoritratti di Segantini, che permettono di percepire l’evoluzione dell’immagine “realistica” che il pittore dà di se stesso nell’Autoritratto all’età di vent’anni (1879-1880), alla progressiva trasformazione simbolica in icona bizantina, nel carboncino su tela del 1895.
Milano è centrale nella vita e nell’opera del maestro, è il luogo dove Segantini preferisce esporre, dove ha sede la galleria Grubicy che, tramite Vittore prima e Alberto poi, lo sostiene e lo introduce alla borghesia illuminata lombarda, facendogli conoscere, attraverso pubblicazioni e riproduzioni, la maggior arte contemporanea europea: da Millet, cui sarà spesso accostato, alla scuola di Barbizon sino alla scuola olandese che ne deriva. A Milano assimila le nuove tendenze artistiche, dapprima Scapigliatura, poi il Divisionismo, di cui sarà considerato il corifeo, sino al Simbolismo, che rielaborerà in modo personalissimo e visionario.
La II sezione della mostra, “Il ritratto. Dallo specchio al simbolo”, presenta una selezione di magnifici dipinti come ad esempio il Ritratto della Signora Torelli (1885-1886), nel quale raffigura la moglie del fondatore del Corriere della Sera, poi l’ebanista Mentasti (1880), il Ritratto di Carlo Rotta (1897) ed altri ancora.
La III sezione “Il vero ripensato: la natura morta” presenta una serie di nature morte, genere obbligato alla fine dell’Ottocento, cui Segantini si dedica con eccellente maestria.
La IV sezione “Natura e vita nei campi” raccoglie i capolavori sulla vita agreste caratterizzati dalla presenza femminile, come La raccolta dei bozzoli (1890).
All’interno di questa sezione troviamo una sottosezione Il disegno dipinto, a testimonianza del continuo rifacimento di Segantini dei propri lavori.
Segantini si riallaccia alla tradizione della pittura contadina da Millet e dei pittori francesi dell’Ottocento, la supera e arriva poi al simbolismo di una natura incentrata sul paesaggio, dove il contadino è incidentale nella natura. Raffigura inoltre la religiosità degli umili, cui da voce in opere fondamentali presenti nella V sezione “Natura e simbolo” come Effetto di luna (1882), il celeberrimo Ave Maria a trasbordo (II versione 1886), Ritorno dal bosco (1890).
La VI sezione “Fonti letterarie e illustrazioni” mostra l’evoluzione del modus operandi di Segantini attraverso importanti disegni ispirati a opere letterarie e religiose, la Bibbia e Così parlò Zarathustra di Nitzsche.
Nella VII sezione, dedicata al “Trittico dell’Engadina”, viene ricostruita attraverso disegni, studi preparatori e filmati la genesi di questa monumentale opera concepita tra il 1896 e il 1899 e considerata il testamento spirituale dell’artista.
Nella sezione conclusiva “La maternità” sono presenti altri capolavori come lo splendido olio Le due madri (1889) della GAM di Milano. È un’opera in cui si attua maggiormente la tecnica divisionista, secondo i principi del Segantini: «incomincio a tempestare la mia tela di pennellate sottili, secche o grasse, lasciandovi sempre fra una pennellata e l’altra uno spazio, interstizio, che riempisco coi colori complementari, possibilmente quando il colore fondamentale è ancora fresco, acciocché il colore resti più fuso. Il mescolare i colori nella tavolozza è una strada che conduce verso il nero: più puri saranno i colori che getteremo sulla tela, meglio condurremo il nostro dipinto verso la luce, l’aria, la verità». Il simbolismo del quadro è evidente: le due madri, la donna e la mucca, sono accomunate dalla dolcezza del lavoro diurno, dall’umiltà della loro dedizione alla terra, la povertà che le tiene vicine nella buia stalla, illuminata appena dall’alone di una lanterna, con accanto i propri piccoli figli. Seguono nella stessa sezione le opere simboliste in cui l’uso dell’oro e argento in polvere si abbina a una tecnica mista di derivazione divisionista, come le due versioni de L’Angelo alla fonte della Vita (1896).
Maria Paola Forlani