In tutta libertà
Gianfranco Cercone. L’Apocalisse quotidiana 
“4:44 – Ultimo giorno sulla terra” di Abel Ferrara
04 Settembre 2014
   

Il film che Abel Ferrara ha dedicato a Pasolini è uno degli eventi della Mostra del Cinema di Venezia e ne riparleremo al momento opportuno. Nel frattempo, chi è interessato a quell’autore originale e affascinante che è Abel Ferrara, può vedere un suo film presentato a Venezia due anni fa e uscito da poco in DVD, che ha in comune con il film su Pasolini l’attore protagonista: William Dafoe.

Si intitola: “4:44 – Ultimo giorno sulla terra”. E sembra il titolo di un tipico film di fantascienza. E in effetti l’ipotesi di partenza del racconto è fantascientifica. Si immagina che lo strato di ozono sulla terra si sia assottigliato (Al Gore avrebbe avuto ragione) e che a una data e a un orario prefissati (la mattina dopo l’inizio del racconto), gli uomini sulla Terra saranno distrutti dalla luce del sole.

Ma se in un tipico film di fantascienza, le reazioni dell’umanità a una simile notizia darebbero luogo a una serie di episodi fortemente drammatici, o eroici, o comunque spettacolari, la prima particolarità del film di Ferrara è che invece l’azione si concentra quasi per intero in un tranquillo attico a New York, dove vivono comunemente un attore e la sua compagna, pittrice di quadri astratti.

Le notizie sul mondo circostante (una folla si accalca a piazza san Pietro…) provengono esclusivamente da un televisore e da un computer. Dall’alto del terrazzo, la vita a New York sembra proseguire in fondo invariata. È vero: un uomo si getta da un balcone, ma potrebbe trattarsi di un episodio di ordinaria disperazione. E quando lo speaker del telegiornale annuncia di sospendere la trasmissione, perché preferisce attendere la fine del mondo con i propri cari, il discorso suona così formale e in sostanza sereno, natalizio, da contraddire una circostanza così estrema. Ma anche nell’appartamento, la pittrice continua a dipingere i suoi quadri e a cambiarsi d’abito, pur senza mai uscire di casa. Fa perfino a una scenata di gelosia al suo compagno, come in un qualsiasi momento di vita coniugale.

Insomma, nel film l’Apocalisse, data per certa, diventa un fatto della vita di tutti i giorni. E c’è una ragione, che si desume dai discorsi dell’attore: forse non ce ne siamo accorti, ma l’Apocalisse è già avvenuta. L’umanità si è già moralmente autodistrutta, perché avida di denaro, noncurante nei confronti della natura, incapace di amare.

Questi discorsi prendono la forma da parte dell’attore di un’invettiva contro il mondo (il film è in sostanza un monologo interiore, per parole e per immagini), ma generano nell’uomo anche un disgusto per se stesso. Un disgusto che si esprime, per esempio, nel consumo dell’eroina.

Quale momento migliore per iniettarsi una dose, dell’ultima notte prima della fine del mondo? L’uomo esce dall’appartamento in cui si è autorecluso per procurarsi la droga. Ma quando rientra e si è già chiuso nel bagno e la sua compagna lo prega per quella notte di non “farsi”, allora lui fa scivolare via dalla mano la polvere bianca.

È una rinuncia che in quel contesto appare quasi religiosa, se è religioso ciò che si compie senza alcun utile per se stessi, ma soltanto perché è cosa buona e giusta. E forse è una prova di speranza, non per un’umanità data per finita, ma per un’altra umanità che chissà come e quando potrà riprodursi nell’universo.

 

Gianfranco Cercone

(da Notizie Radicali, 2 settembre 2014)


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