L’estate è l’occasione per riscoprire film che si sono persi durante l’anno. Così, opportunamente, certo sull'onda delle tragiche cronache recenti, è stato ridistribuito nelle sale (poche; ma anche la prima uscita in Italia era stata “defilata”), Giraffada di Rani Massalha (un regista arabo, di origine in parte palestinese, residente in Francia).
Di questo film, ambientato quasi interamente in una città dei territori palestinesi, segnalo subito un aspetto da un punta di vista artistico certo assai ingenuo. I personaggi israeliani sono TUTTI ottusi e allo stesso tempo molesti, prepotenti o violenti.
Gli arabi palestinesi sono invece conviviali, ironici, saggi, pazienti, e seppure comprensibilmente esasperati dalla convivenza con siffatti vicini, oltretutto spesso armati, non rivolgono mai loro una cattiva parola. I più piccoli, è vero, tirano pietre contro i soldati israeliani, ma quando il padre sorprende in quest’atto uno di loro, lo redarguisce severamente.
Se Giraffada si esaurisse in questa contrapposizione di caratteri, sarebbe un’opera di propaganda di una faziosità, e dunque di una irrealtà, così evidente da far sorridere. Ma il racconto, poi, è costruito intorno a un’idea originale e suggestiva.
Nel corso di un bombardamento israeliano, in uno zoo palestinese, muore una giraffa-maschio. E la giraffa-femmina, che conviveva con lui nella stessa gabbia, da quel momento si rifiuta di mangiare.
E non vuole più mangiare nemmeno il figlio di 10 anni del veterinario di quello zoo, che alla giraffa morta come a quella superstite, è affezionato.
Insomma: la morte della giraffa è l’evento in cui, nel microcosmo dello zoo, precipita lo stato di guerra ancora latente tra israeliani e palestinesi; il segno di un dolore accumulato per troppo tempo e divenuto insopportabile. Ma il rifiuto di mangiare, almeno da parte del bambino, non esprime il desiderio di morire. Ma è un appello, rivolto prima di tutto al padre – forse troppo tollerante, troppo inerte – perché finalmente faccia qualcosa. E il padre raccoglie l’appello (il film è anche la struggente storia d’amore tra un padre e un figlio). Lo zoo è in crisi e non è possibile acquistare una nuova giraffa-maschio. Ma gli arabi, nel film, sono tutti solidali fra loro. E il veterinario palestinese non fatica troppo a convincere un collega veterinario – arabo, ma che lavora per uno zoo israeliano – a fargli trafugare da quello zoo una giraffa-maschio.
Le immagini delle giraffe nel film sono tutte belle. Creature maestose, aeree, quasi surreali, appaiono come le depositarie di una saggezza che gli uomini hanno perduto. Ma il momento più bello di tutti è l’ingresso della giraffa israeliana sul suolo palestinese – sulle proprie zampe, attraverso uno stretto varco nel muro di confine. La giraffa si chiama Romeo e la giraffa con cui andrà a convivere si chiama Rita. Ma il riferimento al Romeo e Giulietta è evidente. E l’apparizione della giraffa sembra incarnare un sogno di fratellanza e di pace che tanto gli israeliano quanto gli arabi, magari senza saperlo, covano in cuor loro, perché entrambi assistono all'evento sbalorditi e commossi. E la scena può commuovere anche gli spettatori del film.
Gianfranco Cercone
(da Notizie Radicali, 10 agosto 2014)