In tutta libertà
Pupi Avati. Parenti, amici e altri estranei 
Una mostra tra film, fotografia, sogni e realtà
07 Luglio 2014
 

Pupi Avati in mostra a Bologna. Il suo cinema, naturalmente, ma non solo: percorso curato dal critico e giornalista Andrea Maioli è un viaggio nell’immaginario di Pupi Avati, nell’universo trasognato della sua Bologna, dei personaggi che hanno saputo emergere dai suoi film per divenire esemplari umani di una narrativa personalissima.

L’esposizione è giocata così, tra finzione e realtà, tra figure raccontate e figure reali, quasi fosse un labirinto magico nel quale smarrirsi tra i personaggi archetipici del suo cinema e del suo vissuto. La mostra “Pupi Avati. Parenti, amici e altri estranei”, allestita alla Sala d’Ercole di Palazzo d’Accursio fino al 14 agosto, è stata realizzata dalla Cineteca di Bologna Groupama Assicurazioni, nell’ambito di “bè bolognaestate” 2014.

Una mostra tra film, fotografie, sogni e realtà: così recita il sottotitolo di questo omaggio a un autore che si è mosso, racconta Andrea Maioli, «sulla linea d’ombra, tra reale e irreale, tra biografia e fanta-biografia, tra verità e bugia. L’autobiografismo dichiarato nasconde trappole e trabocchetti. È tutto vero si affretta a dichiarare l’autore ma non credetegli. La sua memoria cinematografica e visionaria si compone di tasselli che vanno a comporre un puzzle più complesso di quanto possa sembrare a una frettolosa e disattenta visione. Smarrisce volontariamente i confini dell’autobiografia per attingere a quelli della fantasia, dando vita di volta in volta ad una creatura di Frankenstein che si compone di frammenti di pelle e di vissuto. Ecco perché questa mostra, la prima così organica dedicata al cinema degli Avati, la scelta è stata quella di non procedere cronologicamente, dal primo all’ultimo film. Sarebbe stato più semplice. Ma anche scontato e prevedibile. E quindi non in sintonia con un cinema che solo a una lettura frettolosa può apparire lineare».

«In ogni casa c’è una stanza delle cose smarrite» dice Pupi Avati «dove è contenuto ciò che non siamo più stati capaci di ritrovare. Questo luogo nascosto contiene anche molte fotografie, volti di persone che hanno condiviso un tratto del nostro percorso ma che oggi non sapremo più riconoscere, delle quali abbiamo dimenticato il nome. La sola cosa che sappiamo è che dopo così tanto tempo, prigionieri di quel luogo segreto, loro si ostinano ancora a sorridere».

La mostra, che raccoglie oltre 130 fotografie, è strutturata attraverso nove tappe e un video come conclusione:

Parenti, amici e altri estranei

Sorridete…

Interno / esterno

A tavola!

Almeno una volta nella vita…

Questione di fede

Sulla strada

Altrove

 

 

Pupi Avati nasce a Bologna nel 1938. Tra il 1955 e i primi anni Sessanta si dedica al jazz suonando il clarinetto prima nella Criminal Jazz Band poi nella Doctor Dixie Jazz Band. Lavora alla Findus dalla quale si dimette per inseguire il sogno del cinema dove riesce a debuttare avventurosamente nel 1968 con Balsamus l’uomo di Satana dove parteciperanno già alcuni personaggi che lo accompagneranno in molti film: Gianni Cavina, Giulio Pizzirani, Bob Tonelli. In veste di attore debutta anche il fratello Antonio che poi affiancherà Pupi come sceneggiatore e produttore nel corso di tutta la carriera. Dopo il secondo film mai uscito in sala e ancora una volta realizzato a Bologna (Thomas… gli indemoniati del 1969) a cui parteciperà come attrice Lola Bonora (futura direttrice della Video Arte di Palazzo dei Diamanti di Ferrara). Finalmente riesce a trasferirsi a Roma dove avrà un primo successo con La mazurka del barone, della santa e del fico fiorone. Ha filmato 39 film l’ultimo dei quali è Un ragazzo d’oro con Sharon Ston e Riccardo Scamarcio (2014). Ha scritto e diretto fiction televisive (Jazz Band, Cinema!!!, Un matrimonio) e documentari per il piccolo schermo. Come sceneggiatore ha collaborato anche con Pasolini in Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975).

 

Tra le più belle interviste fatte a Pupi Avati, in cui risalta tutta la sua visione della vita, dell’arte e della fede, resta quella di don Franco Patruno per l’Osservatore Romano.

L’incontro avvenne nel 1977 al palazzo della Fono Roma, da questo incontro nacque, in seguito, tra i due una grande amicizia, non solo perché coetanei, ma per molte affinità elettive ed intellettuali. Riporto qui alcuni brani significativi dell’intervista:

 

Mi è spontaneo iniziare l’intervista dall’allusione” intesa come poetica artistica; perciò gli chiedo le sue predilezioni per l’implicito nel film. La risposta è chiarissima: “Sono stato spinto a raccontare non da una necessità di testimoniare ciò che è palese, già detto e scontato. Cerco di abitare quel margine allusivo tra il reale e l’irreale, il possibile o l’impossibile, il credibile o l’incredibile”. Mi agito subito sulla poltroncina perché Avati ha toccato uno degli aspetti esteticamente più rilevanti della mia ricerca sull’arte. Non c’è urgenza di ulteriori domande perché continua dicendo: “C’è un’area che non avvertiamo sempre presente, ma che tutto sacralizza ed avvolge di mistero… è un’area o, ancor meglio, un territorio dal quale siamo molte volte contattati, sfiorati, sedotti o sollecitati”…

“…Non è vero che nei miei film racconto la mia storia… racconto molto più quello che ho intuito e di cui ho conoscenze vaghe e incerte: ciò che in qualche caso è inquietante”. Cerca le parole più consone a definire questa realtà. Cita Novalis: “Il possibile ha una contiguità con l’impossibile, cioè termina dove incomincia l’impossibile. È molto sfumata questa differenza! Nelle storie dei film, parto sempre da dei dati concreti, possibili realistici. Poi mi distanzio, vado verso dei territori più indecifrabili, meno definiti”.

 

Maria Paola Forlani


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