Allungare la gamba verso l’altra parte del Mediterraneo, per immergersi senza annegare nella realtà della guerra.
Dieci mesi dopo il primo viaggio, sono di nuovo dall’altra parte del mare, senza quella salutare inconsapevolezza della prima esperienza, con la coscienza che nulla è come immagini da lontano, con la consapevolezza che quando ti avvicini troppo al sole, per quanto tu ami la sua luce, finisci inesorabilmente per scottarti…
La traversata di migliaia di chilometri nei rapidi tempi che un volo ti consente oscura quelle infinite diversità che danno ad ogni luogo, peculiarità uniche. Le oscura senza cancellarle. Perché nulla può cancellare l’identità e la storia di un popolo, nulla se non la violenza e le atrocità della guerra. La guerra che uccide per primi i diritti umani e poi, di conseguenza, tutto il resto. Si sgretola ogni certezza, ogni regola. Restano in piedi solo le barriere.
E allora mi chiedo, di fronte a questo scenario, cosa sia un confine: una linea immaginaria che divide due mondi reali, o un muro reale che allontana due metà dialoganti, che si completano, si contaminano, si sostengono? Da una parte la quotidianità sono la morte e la distruzione, dall’altra la quotidianità diventa cercare di dare sostegno a chi cade vittima di tante atrocità e vede il suo territorio diventare un passaggio per innocenti e disperati in fuga.
Attraversare questa sorta di limbo significa farsi avvolgere dal fiato corto della morte, non perché tu sia in pericolo, ma perché lei si è insidiata in ogni sguardo, in ogni parola, nel racconto di ogni vita che incontri. Diventa il collante di un’umanità frantumata in mille schegge taglienti, che solo l’amore può limare, può ricomporre. E la straordinaria forza dell’amore ti spoglia di ogni inutile certezza. L’amore che ti viene reso in un sorriso sincero, in una parola di fratellanza e amicizia che risuona dolcissima contro il fragore delle armi.
Asmae Dachan
(da Diario di Siria, 21 giugno 2014)