Ci devitalizzano il giorno
e il lavoro è un ascesso
sanguinolento:
burocratico plasma, stelle spente.
Padroni, direttori e sbirri hanno ripulito
il tombone da ogni presenza di gatto randagio
e il miagolio disperato è divenuto pioggia colorata.
Camminiamo in una notte che non si vuole
fra folle di morti viventi
in un carcere che è brusio e pianto di bambini senza volto,
si distribuiscono bigliettini d'infelicità permanente
e collezioni d'ipocrisia in forma di figurine
e vociferano diavoli canuti, incravattati di tagliole elettroniche,
senza sapere che la falce pareggia ogni erba.
O gloria, perché il tuo destino è così stropicciato nelle tasche della paura,
dell'indesiderio?
Nella macina del sogno cadono gli amori,
nella macchina genealogica si consumano i figli
e il pensiero altro non è che azzardata cautela.
Così, nel convegno della frustrazione, trasciniamo
i miseri residui del nostro esistere
mentre echeggia nei polari saloni di vetro
la nera risata del Potere
(verbo sempre servile).
Alberto Figliolia