Lo scaffale di Tellus
Matteo Moca. Simenon: non solo Maigret
24 Aprile 2014
 

La vita degli scrittori di gialli è, per un certo verso, assai piccolo in realtà, frustrante: si crea una sorta di unione tra autore e personaggio, un legame così forte da far dimenticare o non conoscere proprio l'autore del nostro investigatore preferito. Questo è l'assioma, le dimostrazioni sono altrettanto limpide: Maigret è Simenon (o viceversa), Montalbano è Camilleri, Marlowe è Chandler e così via. Eppure spesso, dietro a questi autori, si concentra un altro tipo di scrittura, una scrittura che sicuramente resta oscurata dalla sua sorella maggiore. Quando si parla di Simenon poi, è facile vedere e percepire la mole di questa sorella maggiore, una consanguinea costituita da oltre 700 milioni di copie vendute e traduzioni in oltre centocinquanta lingue e, come recita l'Index Translationum dell'UNESCO, ci troviamo di fronte al terzo autore in lingua francese più tradotto di sempre. Davanti ad una simile grandezza, può avere un senso andare ad indagare gli spazi periferici della bibliografia? Cercare tra le pagine di Simenon, quelle che non abbiano come protagonista il commissario Maigret? La risposta è, ovviamente, sì. I romanzi senza il celeberrimo commissario sono moltissimi ma, uno in particolare, è meritevole di una menzione speciale (oltre alla bellissima storia del grigio impiegato Kees Popinga in L'uomo che guardava passare i treni e la storia ambientata nelle stanze di New York in Tre camere a Manhattan), e si tratta di I fantasmi del cappellaio.

La storia è assai semplice: in una cittadina sempre sommersa da pioggia e temporali dal nome Rochelle, il giorno 13 novembre avviene il primo omicidio di uno sconosciuto serial-killer. Simenon comincia a trattare la storia dal 3 dicembre, facendoci conoscere il protagonista del romanzo, il cappellaio Labbè, un borghese vecchio stampo che, ogni giorno, terminato il lavoro, si reca al bar della cittadina a bere qualche bicchiere. Davanti alla sua bottega si trova quella del sarto greco-armeno Kachoudas, bottega che funziona anche da abitazione e della quale Labbè conosce tutto, potendola osservare fino al suo interno dalla sua casa. Intanto gli omicidi continuano e del killer non se ne sa niente. Ma Simenon ce lo svela senza troppe remore quasi nelle prime pagine, quindi lo faccio pure io senza pormi troppi problemi. Il colpevole di questi omicidi è il cappellaio Labbè che inizia dalla moglie la serie degli omicidi. Unico testimone di uno di questi è proprio il sarto Kachoudas, personaggio meravigliosamente disegnato da Simenon che costituisce uno dei due termini fondamentali e irriducibili di questo romanzo. Proprio le preoccupazioni di Labbè, conscio che il greco conosce il suo segreto, fungono da terreno fertile per far nascere gran parte dei pensieri contenuti nel romanzo; questa curiosità che prova per il povero sarto, desideroso forse di prendere la taglia che pende sulla testa del killer, lo porta a pensare a lui continuamente, nelle strade buie, in casa e al caffè dove si guardano. Simenon produce un noir che non ha le sue caratteristiche classiche, ma che si colloca invece in una zona intermedia tra il romanzo psicologico e il giallo. L'obbiettivo che si pone l'autore francese è quello di portarci dentro la mente dei suoi protagonisti, nella mente di un personaggio come il cappellaio che nasconde, dietro una facciata dipinta da una tranquilla borghesia, una serie di perversioni e ossessioni riconducibili ai suoi fantasmi interiori, impossibili da smascherare ed abbattere. La grandezza di questo romanzo risiede nella nudità senza riserve in cui è esposto l'animo umano, vivisezionato in ognuna delle sue caratteristiche che fanno emergere la personalità dei personaggi e protagonisti. Il personaggio è prelevato dall'ambiente comune, si parla di un rappresentante della piccola borghesia (scrive Simenon: «un viso dai tratti un po’ molli, sempre grave ma in modo misurato, senza severità: il viso di un uomo che basta a se stesso e non prova alcun bisogno di manifestare i propri sentimenti»), come a dire che questo potrebbe essere l'animo delle persone più comuni, perse nella loro vita ripetitiva e anonima, proiettati però in una storia che li porta fuori da questa condizione, verso la tragedia.

Così il finale è magistrale d esemplare, costruito su un crescendo di tensione che si forma sovrapponendo i vari strati della storia, il precipitare degli eventi in cui, anche una mente calcolatrice e precisa, non riesce ad eccellere, commettendo errori e raggiungendo stati di inedia che travolgono il protagonista, impossibilitato a sfuggire dal suo destino.

Alla base di tutto questo sta lo stile di Simenon, linea continua che attraversa tanto i romanzi di Maigret quanto gli altri, con le sue approfondite, puntigliose e accurate descrizioni degli ambienti e dei personaggi, con la loro aria cupa e triste che trasuda dalle pagine dei libri e dalle atmosfere fredde, piovose e nervose. La nebbia e l'aria umida di Rochelle sono luoghi costruiti con la maestria di un artigiano e sono il simbolo della grandezza di uno scrittore troppe volte accostato solo al suo famoso commissario. Nella quarta di copertina Natalia Aspesi scrive: «Non so se I fantasmi del cappellaio sia il più bel romanzo di Simenon, perché ogni volta che leggo o rileggo una delle sue opere, mi pare sempre la più bella, la più misteriosa, la più drammatica. Ripubblicato dopo quasi cinquant'anni, colpisce al cuore per l'incomparabile capacità di comunicare l'oscuro precipitare dei suoi personaggi dentro la propria perdizione e disperazione» ed è difficile non essere d'accordo, considerando questo romanzo il più bello.

 

Matteo Moca


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