Destini che si attraversano senza volerlo, senza saperlo, beffardamente, drammaticamente. E scegliere è mai possibile? Noia, dolore, tradimento, paura e viltà. Sovrapposizioni di sentimenti e di voci. Parole che s'accavallano si duplicano si ripetono fino a perdere il senso, ogni senso, patetici mantra per tornare a un dopo già visto. O a un triste strascicato mentre. Speaking in Tongues (traduzione di Giovanni Mannarà), opera di formidabile impatto emotivo, di Andrew Bovell, uno dei più famosi autori contemporanei australiani (qualcuno sostiene il più grande), rimarrà in scena sino al 14 marzo al Teatro Libero di via Savona 10, e sarebbe un peccato perdersene l'occasione.
Quattro attori per più ruoli: soprattutto mariti e mogli alla deriva, nello spettro dell'incomunicabilità e con un disperato bisogno di amare e farsi amare, un approdo quasi allucinato a imprevisti esiti e improbabili soluzioni o a consumate certezze, con l'eco di fondo di un irrisolto narcisismo. Non è sbagliato parlare di un lavoro “polifonico”, come ben si comprende dall'incipit allorché in due diverse stanze d'albergo, all'insaputa dei rispettivi coniugi, si matura un doppio tradimento incrociato. Le frasi che i quattro pronunciano sono grottescamente le stesse, un infinito rimando al vuoto interiore che sgomenta. Parole dimenticate. Lettere dove mittente e destinatario si confondono. Solitudini senza rimedio come scarpe abbandonate su una spiaggia battuta dal vento.
Di grande livello l'interpretazione di Laura Anzani, Nicola Caruso, Margherita Remotti e Giacomo Rabbi. La regia di Michael Rodgers è magistrale in un testo così carico di sottotesti, implicazioni, sfumature e rimandi. Scorriamo le sue note... «Sfortunatamente viviamo nell'era del "non ne ho mai abbastanza". In un momento storico in cui non c'è nulla di stabile e in cui corriamo per ottenere sempre di più, i livelli d'ansia hanno raggiunto un punto di non ritorno. Tutto questo mi viene in mente mentre cammino per Milano e mi sento turbato da un mondo che si muove a questa velocità: sms, Facebook, Instagram, WhatsApp, Twitter, e-mail, telefoni, traffico caotico... eppure, da artista, cerco di coglierne il lato positivo. Quanto meno, mi domando il perché, mi chiedo quale sia il senso. Perché guardiamo costantemente il telefono per vedere se qualcuno ci ha mandato un messaggio? Perché vedo per strada persone con la faccia incollata al cellulare? Perché ci affrettiamo a pubblicare foto delle nostre ultime vacanze, del week end, del nostro ultimo amore, foto dei nostri nuovi cani o gatti, del cielo, di una nuvola, di un filo d'erba...? Ci deve pur essere qualcosa di buono in questo, no? Quando ho letto Speaking in Tongues per la prima volta ho avuto l'inquietante sensazione che raccontasse qualcosa di cui non mi ero reso conto, perché sono troppo naïf o inconsapevole. Uno stato d'animo che permea questo testo dall'inizio alla fine. Un'onda di qualcosa che ho disperatamente cercato di non sentire perché non volevo vedere l'abisso che avevo dentro. Isolamento. Persone che non sono in grado di conformarsi alla velocità di un mondo in cambiamento e che quindi cominciano a sgretolarsi. Persone che si sono smarrite nella corsa per arrivare prime. Persone che hanno perso la capacità di comunicare con i più intimi. Persone che strisciano nel buio, faticando a dare un senso al tutto. In poche parole, ho visto me stesso. Mentre camminavo per tornare a casa, ha squillato il telefono e ho notato che avevo cinque messaggi su WhatsApp. Così ho inserito il mio codice e ho guardato insaziabile le foto del mio bimbo appena nato, che mia moglie mi aveva mandato. Allora ho capito perché facciamo tutto questo. Ci fa sentire parte di qualcosa, ci fa sentire uniti gli uni agli altri. Tutte le volte in cui abbiamo la sensazione di parlare una lingua sconosciuta, questo ammorbidisce il dolore causato dalla solitudine, dall'isolamento. Questi momenti critici fanno si che ne valga la pena».
Non è tuttavia una rappresentazione consolatoria dei fatti. Sovente insormontabili appaiono le difficoltà di relazione nel convulso agire che domina, nel clima d'insicurezza social-esistenziale generatosi. Identità in cerca. Estraneità e fiducia. Autopunizione e catarsi. Unioni che si spezzano senza un perché e altre che si ricompongono (con quale perché?). E, ciò nonostante, una nuova possibilità.
Alberto Figliolia
Speaking in Tongues di Andrew Bovell. Teatro Libero, via Savona 10, Milano. Sino al 14 marzo. Orario spettacoli: dal lunedì al sabato ore 21, domenica ore 16. Orari biglietteria: da lunedì a venerdì dalle 15 alle 19, nei giorni di spettacolo da lunedì a venerdì dalle 15 alle 21:30, sabato dalle 19 alle 21:30, domenica dalle 14 alle 16:30.
Info e prenotazioni: tel. 02 8323126, biglietteria@teatrolibero.it, acquisti on line www.teatrolibero.it.