Arte e dintorni
Matisse, La Figura. La forza della linea, l’emozione del colore 
A Palazzo dei Diamanti di Ferrara fino al 15 giugno 2014
22 Febbraio 2014
 

Ritornano alla memoria, per l’occasione, le “straordinarie” riflessioni sull’artista francese dello storico dell’arte don Franco Patruno.

 

 

Si potrebbe conoscere e capire la pittura di Matisse con il solo ricorso ai suoi scritti, alle sue lucidissime proposizioni. Oltre che uno dei più grandi artisti del nostro secolo, egli è stato, infatti, uno dei pochi a render conto, a se stesso in primo luogo e agli altri, delle ragioni profonde, costitutive della sua arte, e dei suoi processi mentali. Accanto all’emozione del colore dispiegato, sempre sono presenti in lui la densità del pensiero e la fermezza della disciplina. E in questo è molto francese, sulla scia di altri grandi maestri della meditazione come Chardin, Ingres, Seurat. Ma tutto avviene comunque per via di immagini, per la necessità intrinseca della figurazione e dell’invenzione: Matisse svolge il suo ragionare dipingendo, campendo la superficie della tela, dal momento che è ben consapevole che «…il pensiero di un pittore non deve essere considerato al di fuori dei suoi mezzi, perché esso vale solo quanto è servito da mezzi che devono essere tanto più completi (e per completi non intendo complicati) quanto più il suo pensiero è profondo» (Matisse, da “Notes d’un peintre”, La grande revue 1908).

Il genio di Matisse ha cambiato il corso dell’arte del Novecento, imprimendo la sua visione nuova ad ogni genere artistico. Nessuno di questi, però, l’ha affascinato quanto la rappresentazione della figura, soprattutto femminile, al punto da impegnarlo per l’intero arco della sua carriera in una ricerca incessante attraverso tutte le tecniche. È questo il tema attorno a cui è incentrata la mostra di Palazzo dei Diamanti dedicata a questo gigante della storia dell’arte moderna, evocando il suo percorso creativo e, al tempo stesso, mettendo in luce le strette relazioni tra la sua produzione pittorica, scultorea e figurativa.

Con questa rassegna, aperta fino al 15 giugno 2014, curata da Isabelle Monod-Fontaine, già vicedirettrice del Centro Pompidou e studiosa di Matisse riconosciuta in ambito internazionale, la Fondazione Ferrara Arte con questo evento, intende proporre un ritratto a tutto tondo e non scontato del maestro francese, che mette in risalto le sue doti di alchimista del colore, ma anche il suo grande talento grafico e scultoreo. Una selezione di opere provenienti da musei e collezioni private di ogni parte del mondo, racconta l’avventura attraverso la quale Matisse, al pari di Picasso, si è ispirato al più classico dei temi, quello della figura, e ne ha sovvertito la rappresentazione tradizionale.

In questo svelamento totale di Henri Matisse, non si può non ricordare la sua più vissuta e sofferta esperienza artistica: “La Chapelle du Rosaire a Vence” (presso il convento Lacordaire), dove, l’artista, riunisce nel medesimo spazio, l’architettura e il suo decoro, “risorgendo” la collaborazione tra Architettura/Pittura/Scultura. Tra gli scritti più poetici intorno a quest’opera resta quello di Franco Patruno Chagalle e Matisse. Due templi della spiritualità in Provenza (Book Editore, 1992).

Scrive l’autore:

«…Malgrado l’ora non sia delle più felici, Matisse ha previsto un dolce smorzamento delle accensioni: le vetrate stilizzano l’albero della vita (che è anche albero di Vence, non solo mitologico) e interpretano il sole eterno. I giochi sul pavimento, l’ammorbidimento dell’area presbiterale, il riflesso nell’ala dove sono seduto (quella dei fedeli) è di una dolcezza sfibrante. L’altare decentrato in diagonale, a coniugare le religiose e il popolo, è pensato per assorbire i riflessi dei raggi, perché la luce che “viene da fuori” deve incrociarsi con quella misteriosa del sacramento.

Il san Domenico che campeggia non centralmente, è la sintesi di una spiritualità che ha superato la resistenza della materia. La scelta della ceramica bianca rende adolescenziale l’atmosfera e non ha reverenziali timori di rientrare in quel ventre materno dove l’infinitamente semplice è radice di ogni complessità. La complessità, naturalmente, è lasciata a noi, allo scalpitio postumo delle nostre riflessioni, perché lì, in quello spazio, ritrovarsi fanciulli è impresa intellettuale, superate le censure di strani super-ego barocchi. Mi volgo verso la Vergine senza volto, al Bambino Gesù che sembra partorito ed offerto da una Santità che ha il volto di tutti, gli elementi floreali sono archetipi della natura, riscattati dal peccato d’origine. Penso all’innocenza non semplicemente aspirata ma presente. Le mie mani si aprono e ne avvertono tutta la pesantezza. La sensazione di levità non è irreale e nello spazio della Cappella non c’è nulla di parapsicologico. La Via Crucis alle spalle segue un itinerario ribaltato, ma non bisogna seguire passo per passo la salita al Calvario: è l’insieme che situa il dolore in una condizione già glorificata…»

La mostra ferrarese mette il visitatore di fronte a tre pietre miliari del 1909: il bronzo La Serpentina, la tela Nudo con sciarpa bianca, provenienti dallo Statens Museum for Kunst di Copenaghen, e la Bagnante del MoMA, opere che costituiscono uno dei più alti raggiungimenti matissiani, nell’arabesco fluttuante dei corpi capace di trasmettere un senso di primordiale fusione con l’ambiente.

Straordinari sono i papiers découpés, inventati nel 1947 per ovviare alle difficoltà fisiche della vecchiaia e della malattia che gli impediscono di maneggiare con fermezza il pennello. Dal maestro ottuagenario viene una lezione di libertà e di denuncia che indurrà alla messa in discussione dei mezzi e dei supporti pittorici e all’esaltazione del gesto. Come non pensare al dripping di Pollok e a quell’altro grande atto “chirurgico” che sono i tagli di Fontana?

Continua nel suo scritto Franco Patruno:

«…Ed è gioco dell’arte, quello di Matisse, ormai consapevolmente o inconsapevolmente eremita, che ci informa come saremo un giorno, con la pesantezza di una carne trasfigurata in leggerezza, quando le semplici piastrelle bianche (riferito alla Cappella di Vence) avranno finito di anticipare il coro dell’etermità. Tutta la tradizione critica mi si frantuma nel cervello: non posso “misurare” la Cappella con i parametri della semiologia, della sociologia, dell’ermeneutica dell’arte”. E così i découpage che giungono a quel gesto ordinatore del caos, a quella composizione dove tutto è necessario e ogni elemento risponde l’uno all’altro, bisogna aver vissuto una vita come quella di Matisse, di meditazione, di pensiero, di felicità esclusiva, nell’azione creativa. Ben lo sapeva Henri Matisse quando, ancor giovane fauve, scriveva “io non so distinguere tra il sentimento che ho della vita e il modo in cui lo traduco».

 

Maria Paola Forlani


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