Diario di bordo
Angiolo Bandinelli. Quale partito per la Rosa nel Pugno?
Angiolo Bandinelli
Angiolo Bandinelli 
11 Ottobre 2006
 
Angiolo Bandinelli ha postato nel forum di Radicali italiani – «in mancanza di meglio» – un intervento che era accompagnato da un distico: «Il 12 settembre scorso inviai al Foglio il seguente intervento, che però non venne pubblicato (una prima versione era stata inviata a metà agosto). Forse può ancora interessare».
Noi, pur consapevoli di non essere «di meglio» né del Foglio, né del Forum stesso, riprendiamo questo intervento pensando sia utile a una riflessione che abbiamo già avviato, e che ci auguriamo prosegua con molti altri interventi.
 
 
"Torna a fiorir la rosa/ che pur dianzi languìa…”. Potremo anche noi recitare i famosi versi del Parini? Potremo celebrare il ristabilimento della Rosa nel Pugno dopo le tempeste di questa estate, quando era data per certa la precoce sfioritura di quello che era sembrato l’OGM o almeno l’innesto più originale apparso tra le querce, le margherite, gli ulivi, girasoli e cespugli vari che ingombrano l’orto della politica italiana? Chissà se ci arriveremo mai. Intanto, la prima delle scadenze concordate da radicali e socialisti Sdi in estate - la riunione della Segreteria svoltasi domenica - è passata senza troppi danni, segnando magari un lieve miglioramento del clima. Forse si tratta di un sollievo momentaneo, di un espediente utile ai due partner per procrastinare il momento della scelta tra rifioritura e sfioritura definitiva. Comunque sia, anche questa riunione ha confermato che, nello sfondo, il nodo da sciogliere è quello delle regole, del “modello di partito” che si vuole mettere in piedi, tra soggetti dissimili persino nell’intensità e nella qualità dell’impegno militante o istituzionale (per cui i socialisti sono visti dai radicali come degli scansafatiche e i radicali, dai socialisti, come gli sgobboni primi della classe). I radicali il nodo vorrebbero scavalcarlo puntando prioritariamente su una grande “Fiuggi 2” dedicata alla ridefinizione, all’approfondimento del programma abbozzato dalla “Fiuggi 1”, l’assemblea del luglio 2005 che vide nascere la nuova formazione politica; i socialisti insistono invece su una “Convenzione nazionale” per discutere, essenzialmente, delle regole su cui innestare obbligatoriamente la Rosa. Dunque: regole o programma?
 
Non è divergenza da poco, ma non riguarda solo la vicenda della RnP. Al di là della rozzezza delle battute tra sfaticati e sgobboni, le differenze strutturali tra i due partiti sono storiche ed emblematiche, dovrebbero interessare tutti i partiti italiani. Per quanto lievitato dall’autonomismo dei Fortuna, dei Mancini e dello stesso Craxi, lo Sdi è legato alla tradizione sviluppatasi nel continente sul modello della Spd, il Partito socialdemocratico tedesco nato per l’“occupazione” del potere e quindi centralista, con forte culto della disciplina, della fedeltà agli organi statutari centrali, interpreti assoluti della “linea”, tracciata nei congressi o ritualmente scaturente da una indiscussa prassi consuetudinaria. Nel percorso storico successivo, da quel ceppo è nato il partito leninista totalitario, o anche i partiti socialdemocratici europei. Tra i due modelli ci sono differenze profonde, ma non definitive, i partiti socialdemocratici odierni conservano le antiche stimmate originarie. Sono anche essi partiti “di gestione”. Sanno gestire l’esistente ma non sono adatti a creare, ad inventare il nuovo. Anche oggi, essi fanno fatica ad accogliere le novità essenziali, ad articolarsi, ad aprirsi al ruolo dell’individuo, a concepire una iniziativa di libertà per il loro aderente. Di questioni come queste, per dire, non si sente nemmeno un accenno nel dibattito cui stiamo assistendo per la formazione del Partito Democratico dei Fassino e dei Rutelli. Lo schema che abbiamo ricordato è lontanissimo dall’esperienza anglosassone, pragmatica e a-ideologica, flessibile e tendenzialmente federalista, che mantiene fermo il primato delle istituzioni (e dell’individuo) sul partito in sé. Esemplarmente: tutti conosciamo i parlamentari americani più in vista, nessuno conosce il nome del segretario del Partito democratico o dei Repubblicani.
 
I dirigenti dello Sdi, al di là dei dati caratteriali e individuali, non sono lentocrati incistiti su inutili regolamenti, sono anche loro interpreti fedeli della tradizione continentale, e glie ne va dato atto: non potrebbero, anche se lo volessero, essere differenti. I radicali nascono da un altro ceppo. Ricordo molto bene un articolo di Marco Pannella sul giornale Notizie Radicali degli anni ’60, nel quale per la prima volta, nella terminologia del partito nato di fresco, appariva il termine “libertario”. Fino ad allora, i pannelliani si erano definiti come dei liberali, figli del dibattito svoltosi soprattutto sulle colonne del Mondo nel 1955. Radicali, ma in quanto liberali. Che potessero avere affinità con i libertari (magari del tipo di Armando Borghi, il leader anarchico della prima metà del secolo che Marco conosceva personalmente e dichiarava di stimare parecchio) nessuno lo aveva pensato. Tutti, anzi, lo avrebbero negato, sdegnosamente. Nella intuizione pannelliana affiorava ora - ma pochi lo capirono - il germe di un modello di partito che rifiutava (e combatteva) l’impostazione cara agli epigoni dello Spd germanico-bismarckiano (nato, a sua volta, per combattere l’anarchismo libertario). Per mezzo secolo, nel partito pannelliano ogni singolo associato, iscritto o militante, ha avuto il pieno, libertario, diritto (se non anche il dovere) di mobilitarsi e agire direttamente, responsabilmente ma anche autonomamente, per promuovere iniziativa politica. Il dibattito e l’accoglimento (o meno) della sua iniziativa nel partito avveniva “dopo”, in una qualche sede istituzionale, meglio se nel congresso annuale nel quale non a caso poteva votare ogni iscritto per l’anno (avendo versato la quota annuale magari un’ora prima dell’apertura del congresso). Questa libertà di iniziativa e di militanza assicurata ad ogni singolo è stata la grande forza propulsiva dell’originale partito: sarebbe difficile elencare quante lotte politiche siano nate in questo modo, attirando e coinvolgendo progressivamente forze nuove, perfino vere e proprie masse, come regolarmente è avvenuto con i referendum. È un modello gestionale della politica volutamente e dolosamente ignorato nel dibattito politologico corrente proprio per la sua configurazione di “alternativa” all’esistente, di motore di mobilitazione popolare in confronto alla quale il “popolo delle primarie” è una kermesse banale. Può anche darsi che l’invenzione libertaria fosse stata escogitata da Pannella per avere comunque e sempre mano libera nel decidere e nell’agire, ma ciò non toglie che essa non risulti un privilegio ad personam ma sia ancorata ad una norma statutaria valida per tutti e ciascuno. La dimensione libertaria vale anche per i gruppi, le associazioni, le strutture del partito, sia quelle operanti sul territorio sia quelle a carattere tematico. Ogni associazione radicale, del primo come del secondo tipo, ha autonomia organizzativa e di iniziativa, ed è tenuta a rispettare solo alcune norme generali: essere costituita da un numero minimo, prestabilito, di iscritti, e avere (come avviene in sede nazionale) un tesoriere responsabile per statuto, elettivo e abilitato ad assumere decisioni autonome anche rispetto al segretario. È previsto addirittura che in una città vi siano più associazioni radicali autonome, le quali possono unirsi sulla o sulle iniziative decise in comune (o in sede elettorale) ma anche condurne altre ciascuna per proprio conto. Da questo complesso di regole risulta un organismo federale, che decide il suo percorso politico in congressi annuali prefissati nel corso dei quali vengono assunte specifiche iniziative comuni, votate a maggioranza di tre quarti, impegnative “politicamente” per iscritti e associazioni, ma senza possibilità di espulsione o di altre sanzioni rispetto ai non adempienti: il partito radicale non ha probiviri e non contempla il rito dell’espulsione. Ci si potrà domandare cosa tiene assieme un partito così magmatico. La risposta è semplice: la “volontà politica” di perseguire determinati obiettivi, organizzati dentro una forza flessibile e leggera che cresce o si assottiglia a seconda delle esigenze ma si dimostra anche capace, quando necessario, delle grandi mobilitazioni per la raccolta delle firme referendarie, con centinaia di militanti pronti, il giorno dopo la conclusione della raccolta, a scomparire senza porre problemi. È un partito fatto apposta per dare voce e spinta alla parte della società disponibile a riforme consone ai propri ideali ed esigenze di ammodernamento e progresso civile.
 
Nel suo nocciolo, lo Statuto radicale votato nel Congresso di Bologna del 1967 è un segmento di teoria politica, di vera e propria teoria del partito, del partito moderno. Non un espediente, insistiamo, ma una formula teorica, di opposizione (la famosa “alternativa”) alle strutture della politica partitocratica. Nelle sue pieghe si avverte l’attenzione nei confronti di una espressione “carismatica” della leadership. Negli anni ’70, mi pare, Angelo Panebianco criticò questa vocazione: per un weberiano si trattava di una eresia, i radicali ne scoprirono anticipatamente la validità (anche qui, innanzitutto su un piano di forte teoria) come antidoto e contrappeso al prepotere delle burocrazie partitiche. Si potrà semmai osservare - ed è accaduto - che lo statuto radicale non è mai stato interamente applicato (ed oggi è, dobbiamo senz’altro riconoscerlo, in piena disgregazione, inapplicato e perfino distorto). A questa obiezione va risposto che quel documento era, innanzitutto, un “manifesto” teorico del partito moderno e che tale funzione ha dialetticamente assolto; in secondo luogo, che esso è stato invece applicato ed ha funzionato nelle sue parti essenziali, nella sua logica profonda, al di là degli scollamenti e cedimenti verificatisi nel corso di quaranta anni.
 
Cosa significa, tutto questo? Semplicemente che quando si chiede di discutere della “forma” possibile su cui plasmare la RnP - ma non solo - non si potrà e non si dovrà non tener conto delle questioni di grande spessore teorico e, nella sostanza, assolutamente attuali, ben visibili tra le pieghe di quello statuto: questioni che richiedono discussione e vaglio critico, ma che non si possono cancellare o negare a priori solo perché vi è un militante che, come dice di sé Pannella, si sente sempre in vacanza quando fa politica - la politica è la sua vacanza - e che quindi scompiglia (ma anche, come negarlo?, “stimola”) i più blandi ritmi altrui. Insistendo equivocamente sul pannellismo, si sono accusati i radicali di un “movimentismo” inaccettabile per le regole ed esigenze della politica istituzionale. È una accusa di corto respiro, interessata, sostanzialmente di stampo partitocratrico. Nel suo profondo, vale la pena ricordarlo, la realtà radicale è nata su una geniale formula degli anni ’50, quella della “unità laica delle forze” contrapposta al facile slogan della “unità delle forze laiche” e prefigurante la speranza di un partito riformatore flessibile, laico ma non laicista e dunque aperto ai cattolici, da costruire per bloccare l’ipertrofia di un “regime” di cui già si intravedevano (Maranini, Panfilo Gentile, Omodeo, ecc.) le avvisaglie e rivalutare il ruolo delle istituzioni, a partire dal Parlamento o dall’esecutivo. Non interessa, questa problematica, il dibattito attuale circa il Partito Democratico o la rifondazione di Forza Italia?
 
Non tutto, del meccanismo che abbiamo sommariamente descritto, dovrà e potrà essere recepito nelle regole statutarie della RnP. Ma pensare di ingabbiare la nuova formazione (se durerà) nelle regole consuete ed interessate dei partiti attuali, sia pure appiccicandovi sopra una accattivante etichetta “liberalsocialista”, sarebbe il ritorno ad una esperienza sconfitta dalla storia e pericolosa nel presente e nella realtà italiana. Se dovesse accadere questo, la Rosa non tornerebbe più a fiorire. Con Palazzeschi, dovremmo allora inveire contro la “rosa prostituta”, svenduta e forse uccisa…
 
Angiolo Bandinelli
(da Notizie radicali, 10 ottobre 2006)

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