Sono a proporre un mio breve commento alla versione in musica della lirica dannunziana “La pioggia nel pineto” di Paolo Diodati. Una composizione pianistica ancora inedita, che ho avuto modo di conoscere per vie fortuite (attraverso la comune conoscenza del matematico Umberto Bartocci) e di apprezzare in un incrocio di progetti. Il primo di questi riguarda l’iniziativa della coreografa Loredana Materazzo, direttrice della scuola di ballo Redsfitness di Orvieto, di mettere in scena uno spettacolo dal titolo “Da D’Annunzio a Stromboli”, con esecuzione de “La pioggia” e di 7/8 brani dedicati a Stromboli, con balletto e video-proiezioni. Personalmente, invece, come insegnante di liceo, sto collaborando ad un progetto fiorentino per le scuole medie secondarie, i “Colloqui fiorentini”, esteso a tutta Italia. Si lavora ogni anno a tema, con nutriti gruppi di studenti che aderiscono volontariamente all’iniziativa. Quest’anno (da qui l’incrocio) l’autore argomento di lezioni, conferenze, uscite didattiche ed elaborati degli alunni è D’Annunzio, anche in vista delle celebrazioni del poeta. I lavori si concluderanno con un convegno di tre giorni a Firenze, a marzo. La mia attenzione al progetto della scuola di ballo ed all’esecuzione pianistica della nota lirica dannunziana nasce quindi soprattutto per interesse didattico: so che il lavoro cui collabora Paolo Diodati prevede anche la realizzazione di un dvd per le scuole e, soprattutto, l’approccio interdisciplinare ha un largo spazio nel progetto a cui collaboro nella scuola. (Susanna Bisi)
La versione in musica
de La pioggia nel pineto dannunziana
di Paolo Diodati
Possono tensione panica e tensione nostalgica convivere nella nota lirica dannunziana?
Sembrerebbe un paradosso conciliare le due dimensioni, tanto forte, forse, è il pre-giudizio con cui ci si accosta all’Alcyone, uno dei manifesti del panismo dannunziano. E questa lirica, in particolare, sembra esprimere quella presentificazione dell’Assoluto nella concretezza sensoriale del qui ed ora più di ogni altra lirica della medesima raccolta, quell’appagamento pieno cui, ad esempio, i protagonisti dei romanzi dannunziani anelano senza riuscire ad ottenerlo completamente. Potenza della parola poetica, di quella lirica s’intende, se – come è noto e frequentemente ripetuto – dannunzianamente parlando “il verso è tutto”. Eppure ascoltando questa versione in musica, non che la nostalgia, il paradosso si avverte, come se l’esperienza panica evocata dalla parola, dal verso, dal ritmo e dalle immagini (e dalle immagini retoriche, quando queste assurgono a livello di simboli) riguardasse il passato (o meglio un tempo arcano, indeterminato) più che il presente: un luogo ed un tempo perduti in cui l’esperienza ‘sacrale’, ‘panica’ si è verificata, in cui l’Assoluto si è fatto presente.
Così le immagini spaziali potrebbero valere, contemporaneamente, come immagini temporali. Come, ad esempio, nei seguenti versi:
che parlano gocciole e foglie lontane (v. 6);
ma un canto vi si mesce/ più roco/ che sale/ dall’umida ombra remota./ Più sordo e più fioco/ s’allenta, si spegne./ Sola una nota/ ancor trema, si spegne./ risorge, trema, si spegne. (vv. 71-79);
La figlia dell’aria/ è muta; ma la figlia/ del limo lontana,/ la rana,/ canta nell’ombra più fonda,/ chi sa dove, chi sa dove! (vv. 89-94).
Versi in cui la lontananza sembra farsi anche distanza temporale rispetto all’io lirico dell’autore, del suo interprete e del lettore-ascoltatore. E l’ascolto, contemporaneamente, una rievocazione.
In particolare, passaggi come ai vv. 71-79 (sopra citati) sono sottolineati da una chiara modulazione nelle intensità, proprio a suggerire l’evocazione.
Se poi la parte relativa ai vv. 110-114, E andiam di fratta in fratta,/ or congiunti or disciolti/(e il verde vigor rude/ ci allaccia i mallèoli/ c’intrica i ginocchi)/ [...] è tesa ad esprimere pienezza vitale («L’esecuzione cresce, per terminare con una esplosione che dovrà esprimere gioia di vivere», precisa l’autore stesso) al tempo stesso esprime anche un anelito rivolto ad un altro tempo e ad un altro spazio, in cui l’estasi panica può essersi già verificata:
chi sa dove, chi sa dove! (v. 94, v. 115) Come un’antifona, come a dire, al tempo stesso…
chi sa quando, chi sa quando!
E se ‘nostalgia’ suona, anche etimologicamente, come ‘dolore per l’impossibilità del ritorno’, (condizione che in questa interpretazione, ripeto, si avverte) l’anelito alla vitalità seduce verso mondi arcani, come a dire che l’esperienza panica potrebbe di nuovo verificarsi; e la si sta evocando.
Non ritengo che sia un’operazione impropria interpretare musicalmente un testo che, come puntualmente osserva lo stesso Diodati, è già di per sé musica. La pioggia nel pineto, si sa, è una lirica altamente sofisticata e pretenziosa che, nella sua corposità, più che esprimere, ‘sfida’ la musicalità, come un componimento alessandrino o barocco in cui l’arte della parola si mette in rivalità con le altre arti. Una sorta di sconfinamento su differenti registri sensoriali sui quali fa presa e ai quali fa appello il verso dannunziano, nella sua polivalente valenza. Perché non poter rispondere, dare eco o, semplicemente, lasciarsene suggestionare, ispirare per comporre altro? Questo altro è chiaro che non potrà mai essere propriamente la ‘versione musicale’ della lirica ma una libera interpretazione di questa (tra l’altro: esistono buone letture della creatività non libere?).
Per questo dico che probabilmente questa lettura musicale coglie un’altra verità su questa lirica e, in generale, sul verso dannunziano. Forse anche sullo stesso processo ideativo, creativo, del suo autore, D’Annunzio. Se l’esperienza poetica, come il testo stesso della lirica, è inesauribile. Così, in questa duplice tensione, acquisterebbe in potenzialità di senso anche la chiusa:
Piove […] su la favola bella/ che ieri/ m’illuse, che oggi t’illude,/ o Ermione.
Susanna Bisi