Oblò Mitteleuropa
Le tre tappe de “I Masnadieri”: Friedrich Schiller, Andrea Maffei, Giuseppe Verdi 
di Gabriella Rovagnati
18 Ottobre 2013
 

Dopo aver partecipato ad un convegno a Modena proprio nei giorni del duecentesimo anniversario dalla nascita di Verdi (vedi programma), ho avuto il privilegio di poter assistere ieri alla prova generale de I masnadieri al Teatro Regio di Parma, uno degli appuntamenti del Festival che la città dedica al compositore, nato appunto in quella provincia. E alla fine del bello spettacolo, generosamente applaudito da un pubblico entusiasta, mi sono trovata a riflettere ancora una volta sul ruolo che Verdi ha avuto nel far conoscere Schiller agli Italiani. È noto che il musicista si rifaceva volentieri a modelli letterari per i suoi soggetti, e a drammi di Friedrich Schiller (1759-1805) si ispirò per ben quattro delle sue opere: “Giovanna D’arco” (1854, da Die Jungfrau von Orleans), “Luisa Miller” (1849, da Kabale und Liebe, ossia Intrigo e amore), “Don Carlo” (1867, da Don Carlos) e, appunto, “I Masnadieri” (1847, da Die Räuber).

Quanto alle date di composizione, l’ultima delle opere citate è la prima di matrice schilleriana a cui Verdi lavorò, dopo aver presentato l’anno prima alla Fenice di Venezia il suo “Attila”, che ha per modello una tragedia, Attila, der König der Unnen (Attila, il re degli Unni), di un altro scrittore tedesco della cosiddetta Età di Goethe, il romantico Zacharias Werner (1868-1823). Mentre però questi è autore oggi del tutto dimenticato, Schiller resta uno dei pilastri della storia e della teoria letterarie del tardo Settecento. E fu proprio con I Masnadieri, la sua prima opera teatrale pubblicata anonima nel 1781 e rappresentata per la prima volta a Mannheim l’anno successivo, che Schiller diventò all’improvviso famoso. Trovò i suoi più entusiastici sostenitori fra i giovani, mentre nel contempo si rese inviso al potere. Schiller era allora medico militare presso l’Accademia di Stoccarda (a pochi kilometri da Marbach, il borgo che gli aveva dato i natali) e, per assistere alla messinscena del suo dramma a Mannheim, aveva lasciato il servizio senza chiedere il permesso. La sua insubordinazione, unita al contenuto rivoluzionario e libertario del dramma, gli causarono l’allontanamento coatto dalla patria, inducendolo a una vita raminga che ne mise per sempre a repentaglio la salute. Non cessò però di scrivere per il teatro, anche se alla stabilità sociale ed economica arrivò solo negli anni novanta, quando si stabilì a Weimar, dove chiuse i suoi giorni all’età di 46 anni, dopo aver aderito agli ideali estetici del classicismo, già propagati dal Goethe maturo.

Al momento della stesura dei Masnadieri, invece, proprio come Goethe in gioventù, Schiller era animato dallo spirito ribelle dello Sturm und Drang, un movimento d’arte e di pensiero che voleva essere insieme lotta individuale e collettiva contro ogni forma di autorità costituita e ogni forma di dissimulazione della verità. I Masnadieri sono appunto espressione di questa battaglia che vede in campo l’uno contro l’altro i due figli del conte Maximilian Moor: Karl è odiato da Franz, il secondogenito, perché vede nel fratello non solo il preferito, ma anche colui che è destinato alla successione. Fa quindi di tutto – ricorrendo a fase lettere e alla corruzione – per mettere in cattiva luce il fratello, fino ad indurre il padre a bandirlo e diseredarlo. Karl, che nel frattempo si è messo a capo di banda di masnadieri, si dispera per aver perduto l’amore del genitore. Quando però scopre che il fratello lo ha turlupinato, ha rinchiuso il vecchio padre in una torre e, presone il potere ha persino insidiato la donna che ama, Amalia, giura vendetta. Alla fine della tragedia Franz se ne sottrae suicidandosi; Maximilian, scoperto che Karl è il capo di una banda di ladri e assassini, muore di crepacuore e Amalia, rimasta nonostante tutto fedele al suo innamorato, si fa uccidere da Karl che la ricusa sentendosi indegno di lei e, nel tentativo di redimersi, si consegna alla giustizia andando incontro a more certa.

Il libretto per l’opera di Verdi resta molto aderente al modello, anche se i cinque atti dell’originale sono ridotti a quattro. L’autore del testo è Andrea Maffei, grande traduttore dal tedesco, che in quel periodo si era assunto l’onere di rendere in italiano l’intera opera teatrale di Schiller. Maffei non amava in maniera particolare quel testo cruento e allo Schiller radicale e combattivo della prima maniera preferiva quello misurato della maturità, quello che, dopo uno studio assiduo della filosofia di Kant, aveva trasformato i propri personaggi in portavoce di ideali d’abnegazione e d’armonia (di cui un esempio classico è la Maria Stuart). Accettò comunque di adattare la propria versione dal tedesco dei Masnadieri in un libretto d’opera. La collaborazione fra Verdi e Maffei ebbe avvio a Recoaro, dove entrambi si erano recati per un periodo di riposo: Verdi per riprendesi da una brutta malattia, Maffei per consolarsi del divorzio dalla moglie. Dalla collaborazione del raffinato poeta e del sanguigno musicista nacque così un libretto che, secondo molti, è di un livello estetico paragonabile a quello dei testi tardi che per il musicista scriverà Arrigo Boito. I versi classicheggianti di Maffei (che era stato allievo di Vincenzo Monti) conferiscono al libretto quel colore cupo à la Ossian che ben si adatta a questa tragedia, dove i due fratelli in lotta sono insieme individui distinti e opposti, ma anche espressione delle due facce di una stessa personalità, incapace di conciliare in sé sentimento e ragione, passionalità e calcolo. L’opera, rappresentata la prima volta a Londra nel luglio del 1847 e diretta dallo steso Verdi, fu accolta con favore in Inghilterra, piacque invece meno ai francesi e fu ben presto relegata fra le minori. La nuova messinscena di Leo Muscato a Parma la presenta per quello che essa voleva essere nelle intenzioni del Maestro: una storia di indomite passioni, presentata per progressive stazioni e sottolineata da una musica altrettanto discontinua, ma non per questo meno avvincente e convincente, anche se per i più sofisticati eccessivamente infarcita di cabalette e ancora troppo radicate negli schemi della precedente tradizione.


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