Lo scaffale di Tellus
Marisa Cecchetti. Marino Magliani e Giacomo Sartori: Zoo a due
10 Luglio 2013
 
Marino Magliani, Giacomo Sartori
Zoo a due

Perdisapop, 2013, pp. 184, € 14,00
 
   Animali come uomini, che si raccontano in prima persona, che guardano il mondo dal loro punto di vista, un mondo dai confini strettissimi, che cercano comunque di capire il senso delle cose che avvengono intorno e il significato stesso della vita.
   I brevi racconti di Sartori hanno protagonisti di dimensioni e forme varie, si va dal cane alla formica, dal bruco alla scrofa, dall’ameba al dromedario, da un halobacterium ad un orso polare, recuperando anche un unicorno dalle pagine di un manoscritto del XVI secolo. Esseri dalla vita più o meno breve, che acquistano capacità analitica, che mettono alla berlina il mondo degli uomini proprio con la genuinità disarmante delle loro osservazioni che rimanda un po’ allo sforzo di razionalizzazione dell’orsetto Winny Pooh e strappa il sorriso.
   Certi gesti e certe situazioni umane sono descritte oggettivamente, quasi messe a nudo: «La gente ci passava davanti facendo finta di non vederci: -dice il cane di un barbone alcolizzato- quasi nessuno lasciava cadere un pezzo di ferro nel cappello». E del padrone con il piede ingessato: «Aveva però il piede in una scatola bianca, come una specie di stivale, invece di appoggiarlo per terra lo teneva a mezz’aria».
   Animali e uomini accomunati da un unico sentire e dagli stessi problemi, come quelli di una vedova nera arrabbiata perché il compagno non collabora, o la sofferenza di un polipo riuscito a sfuggire alla bollitura in pentola per la generosità dei pescatori, o la ribellione di una formica che capisce di aver bisogno anche di emozioni e non solo di lavoro, perché «con leggi troppo rigide non vivi la tua vita». Con un giudizio critico sul genere umano: «Quello che ti uccide è proprio tutta questa furia, questo ritmo frenetico- dice un dromedario che porta i turisti a spasso-. Si direbbe che abbiano tutti un aspide alle calcagna. Per cosa poi? Per fare ogni giorno quello stesso ridicolo tragitto fino alle prime dune». Anche una scrofa rimpiange i bei tempi passati, quando viveva in mezzo agli altri animali da cortile e poteva mescolarsi un po’ alle chiacchiere del gruppo.
   Una schietta nostalgia di passato compare qua e là e la difficoltà di comunicare attraversa i racconti e porta con sé la solitudine e l’angoscia.
   Il cane è il protagonista unico di due ampi racconti di Marino Magliani. Un cane abbandonato dal padrone, che morirà sotto una macchina, e il figlio nato da un incontro casuale sul molo, costretto a diventare cane da caccia e da riporto. Destini contrapposti in una forma di involuzione come qualità di vita. Vero è che il cane abbandonato ha cercato a lungo e inutilmente la strada di casa per tornare dal padrone, ma poi la sua libertà è diventata preziosa, perché lo ha guidato dietro alla sua curiosità, permettendogli di allargare gli orizzonti, di sforzarsi per capire.
   Sceso dalla collina, è affascinato dalla scoperta del mare con la sua distesa senza confini e si ferma a lungo a studiare un molo che sembra un ponte gettato verso altre terre ed altri contatti. Un cane che riflette sulle sue scoperte, che le interpreta, saggio. Ha un amico poeta che spesso gli cammina accanto, tanto che cane e poeta finiscono per sovrapporre le loro ombre, per identificarsi. Un cane-uomo in cerca della propria identità, che vuole andare oltre le forme concrete.
   Due generazioni a confronto, quella del padre e del figlio, che disegnano una parabola discendente del diritto alla libertà, un restringersi di prospettive. Dimenticata la fame che ha guidato i passi del padre, ora la sicurezza di un posto dove dormire e di una ciottola piena hanno trasformato la meraviglia in abitudine, anche quella di sopportare il male che viene dall’uomo.
   Cani che rispecchiano problematiche della nostra società: la fame, la fuga, la schiavizzazione, i sogni che si infrangono. Per il figlio del randagio il poeta rimane un ricordo fissato dalle pagine di uno scrittore. Ma il linguaggio di Magliani porta sempre dentro di sé la leggerezza della poesia.
 
Marisa Cecchetti

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