Diario di bordo
Quale politica verso Pechino?
26 Settembre 2006
 
Parlando alla Direzione nazionale della Rosa nel Pugno, Emma Bonino ha voluto dedicare un passaggio del suo intervento - e gliene sono sinceramente grato - alle obiezioni che ho avuto occasione di muovere (in un articolo su L'Opinione e in un post sul mio blog) alle dichiarazioni di Prodi negli incontri ufficiali a Pechino e al suo silenzio riguardo le posizioni espresse dal premier a favore sia della revoca dell'embargo europeo sulle armi alla Cina sia della politica di «una sola Cina».
Angelo Panebianco, in un suo corsivo su Corriere Magazine, non ha voluto teorizzare una presunta incompatibilità dei radicali come forza di e al governo. A suo modo ha osservato come, per un partito che dell'alternativa al regime partitocratico, dell'opposizione sia alle maggioranze che alle opposizioni di questo paese, ha fatto la propria “ragione sociale”, il trovarsi oggi al governo, cioè in grado di poter incidere per quell'alternativa, rappresenti una sfida tale da non poter non provocare «turbolenze», considerando anche le peculiari gravi inadeguatezze del Governo Prodi quanto ad approcci riformatori.
Il Professor Panebianco parla della difficoltà, per i radicali, di conciliare «governo realistico» e «vocazione liberale» (citando due statisti di livello come il britannico Gladston e l'americano Wilson), ma la vocazione liberale, se è davvero tale, è governo realistico dei problemi per definizione.
Ne è la dimostrazione la vita politica stessa di Emma Bonino. Nel rifiutare, dal palco dell'hotel Palatino, lezioni sui diritti umani, su come si difendono e come si promuovono, il ministro Bonino ci ha offerto una lezione di pragmatismo tipicamente liberale, anglosassone, che non è cedimento alla realpolitik. Specie se si è forza di governo, dobbiamo chiederci «cosa è utile fare per cambiare solo di un millimetro la condizione di milioni di persone», aprendoci all'«adattamento delle nostre strategie», studiando il mezzo più idoneo, più adeguato, per avvicinarci al fine che vogliamo perseguire. E ad ogni ruolo corrispondono precisi strumenti.
“Cosa dovevo fare?”, chiede retoricamente il ministro Bonino: «Un incidente diplomatico con il presidente Prodi in piena Pechino sulla revoca dell'embargo delle armi? Questo non avrebbe fatto fare un passo avanti ai cinesi, però avrebbe alimentato il cicaleccio italiano per molto tempo». Sarebbe invece «utile che parlassimo di cos'è oggi il mondo asiatico, di che ruolo vogliamo far giocare alla Cina. La persuasione è un'opera lunga, paziente, ma irrinunciabile. Nessuno ha interesse a che la Cina esploda, noi abbiamo l'interesse che diventi un protagonista responsabile delle cose del mondo e delle sue... e badate che in Cina è aperto all'interno della classe dirigente un dibattito molto profondo... a me non costava nulla mettermi un simpatico cartello e fare un giretto a Tien An Men. Questo forse avrebbe dato una fotografia su un giornale italiano, ma poco avrebbe aiutato a strappare qualche minimo impegno in più».
Credo che la Bonino abbia compreso come la mie critiche fossero ben distanti dal massimalismo di quanti vorrebbero che non si commerciasse con le dittature, provocandone così un isolamento che finirebbe inevitabilmente per rafforzare la presa del regime su quelle società. Sono profondamente convinto che l'apertura commerciale sia un veicolo essenziale di trasmissione di valori e di cultura. Nonostante internet, come sappiamo, non sia immune dai nuovi strumenti di coercizione dei regimi che sfruttano anch'essi le nuove tecnologie, tuttavia i pre-esistenti mezzi erano tali per cui il beneficio marginale delle nuove tecnologie oggi risulta più basso per i governi che per gli attori non-governativi. Né le mie critiche riguardavano una presunta mancanza, o timidezza, nell'affrontare il tema dei diritti umani e della democrazia con le autorità cinesi da parte di Prodi e Bonino. Stando alle cronache, questi argomenti sono stati trattati in modo aperto e franco.
Se si riuscisse a «cambiare solo di un millimetro la condizione di milioni di persone» bisognerebbe parlarne in termini di successo. Insomma, sì alla politica dei piccoli passi, ma per lo meno bisogna assicurarsi che la direzione dei passi sia quella giusta. Per quanto riguarda il commercio - e le sue regole - il discorso con Pechino è ben impostato.
Tuttavia, ho visto Prodi intraprendere la strada sbagliata quando ha schierato l'Italia con il Governo cinese su due pilastri della sua politica, sposandone obiettivi strategici di chiara impronta nazionalista.
Si può puntare sulla «persuasione» degli attuali vertici cinesi? Accertato che «è aperto all'interno della classe dirigente un dibattito molto profondo», siamo sicuri che le posizioni su cui Prodi ha schierato l'Italia servano all'ala aperturista e riformatrice di quel dibattito? Non fanno, piuttosto, il gioco dell'ala nazionalista? Quale impegno ha strappato Prodi a fronte della scelta di spendere il peso diplomatico dell'Italia a favore della fine dell'embargo sulle armi e della politica di “una sola Cina”? Il riconoscimento del tragico crimine di Tien An Men? Per lo meno, la fine della persecuzione dei sopravvissuti e dei parenti delle vittime? Qualche modifica a quella recente legge anti-secessione che prelude all'invasione di Taiwan? Niente di tutto questo né di altro, al momento. Il ruolo che con queste due specifiche prese di posizione l'Italia suggerisce alla Cina di giocare è un ruolo da potenza economica nazionalista ed espansionista.
Quando gli Stati Uniti confermano l'adesione alla “one-China policy” non mancano di sottolineare che ciò non autorizza Pechino a considerare Taiwan un proprio affare interno. Anzi, uno dei punti di attrito più rilevanti tra Bush e i vertici della Repubblica popolare è stato quando nel corso dell'ultima visita (novembre 2005), il presidente americano, facendo appello «alla libertà del popolo cinese, all'apertura democratica della sua società», ha indicato nella «free and democratic Chinese society» di Taiwan il modello da seguire, volendo intendere che non esiste un'eccezione cinese. Bush ha così aggiornato la nozione americana di “one-China policy”: se esiste una sola Cina, essa ha i tratti liberi e democratici di Taiwan. Sfumature decisive, ma assenti nelle parole di Prodi.
Nel caso dell'appoggio assicurato da Prodi su due questioni così rilevanti per il governo cinese, doveva valere il principio per cui ad ogni nostra “carota” dovrebbe corrispondere un'apertura concreta da parte dei regimi. Altrimenti come potranno mai democrazia e diritti umani divenire parametri - non gli unici ma centrali - nei nostri rapporti con le dittature? Se vanno sostenuti i gruppi di dissidenti e di attivisti che dall'interno si battono per democrazia e diritti, quale segnale può rappresentare sostenere in modo gratuito due dei pilastri più aggressivi della politica di Pechino?
Tutto ciò ha a che fare con un altro tema affrontato dalla Bonino nel suo intervento: «Come ci dobbiamo stare al governo?»
Se il principio della collegialità è davvero condiviso all'interno del Governo Prodi, e dal premier stesso, due posizioni come quelle espresse a Pechino dovrebbero aver trovato spazio di discussione nelle riunioni governative di preparazione della visita e anche un ministro per il Commercio Estero dovrebbe aver potuto incidere sulle scelte del governo.
Se ciò non fosse avvenuto, o se comunque avesse prevalso la linea espressa poi da Prodi a Pechino, cosa fare ora? Dire che non si è d'accordo non corrisponde certo a una violazione del principio di collegialità, che significa rispettare le decisioni assunte collegialmente dal governo, ma non rinunciare al proprio dissenso costruttivo. Il «cicaleccio» aumenterebbe di certo, ma non di rado, con gesti dall'alto valore simbolico e politico, i radicali sono riusciti a svolgere il ruolo delle formiche.
Approfitto per introdurre una considerazione di carattere generale. Come radicali - ai quali Sofri attribuisce il paradossale difetto di non avere «qualcosa di cui pentirsi» - arrivati al governo ci preoccupiamo di dimostrare che non siamo inaffidabili. Il rischio però, esagerando, è di finire per attribuire un fondamento ad accuse, e luoghi comuni, rivolti spesso in modo strumentale e in malafede. L'etichetta di “inaffidabili” deriva dal fatto che i radicali non svendono le loro battaglie e sono laicamente pronti ad allearsi («percorrere un tratto di strada insieme») con qualunque forza politica disposta a lottare per quelle al loro fianco. Un pregio nel panorama politico italiano, che oscilla tra lo scontro ideologico e la guerra fra bande, che ha regalato a questo paese conquiste fondamentali. Scrollarci di dosso il complesso dell'inaffidabilità, il timore di essere incasellati nel mastellismo o nel dipietrismo, non può che aiutarci a giocare al meglio le nostre carte “di governo” per l'alternativa.
 
Federico Punzi
(da Notizie radicali, 25 settembre 2006)

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