Angelo Andreotti, direttore dei Musei Civici d'Arte Antica di Ferrara, da anni impegnato nella curatela di mostre e nella critica d'arte, approda alla sua quarta raccolta poetica con Parole come dita, libro convincente che conferma la forte ispirazione del poeta ferrarese.
Cinque sono le sezioni in cui si articola il libro, corredato da un apparato di note che consentono al lettore di affacciarsi al complesso universo di riferimenti culturali dell'autore, dalla musica, alla filosofia, alla letteratura. Senza dimenticare il Po e taluni scorci della pianura padana, che fungono da sfondo ai testi, come ne L'abbraccio, dominato dalla presenza incombente della nebbia e dall'enigma di una temporalità contraddittoria, fino all'ossimoro di una «finita infinitudine» dove persino l'ordine della pensabilità del reale sembra vacillare, con uno sviluppo ed un'allure che evocano certi esiti della poesia metafisica inglese e, in particolare, John Donne.
Già dal titolo si intuisce un percorso sinestesico nel quale la parola mira a farsi corpo, a trovare una dimensione tattile che consenta al poeta, così come al lettore, di avvicinarsi a se stesso e all'altro da sé, di incarnarsi, oserei dire, uscendo da una solitudine quasi ontologica. Per fare questo, la poesia di Andreotti cammina sovente a braccetto con una riflessione sul destino dell'umano, in un felice connubio di poetare e pensare, come nella più alta tradizione poetica novecentesca, da Montale a Eliot, da Luzi a Simone Weil. («Niente permane e niente se ne va, / né inizia né finisce: / così la vita canta / la perpetua armonia tra bene e male»).
Attratto dai miti greci e dalla loro forza archetipica e universale, Angelo Andreotti ci regala immagini indimenticabili di Nausicaa, che intuisce al primo sguardo il già essere altrove di Ulisse, pur non rinunciando alla speranza di essere per lui approdo, e di Euridice. Qui, rivisitando una figura già cara a Gluck, a Rilke, a Pavese, in un alternarsi di ricordi, in forma di terzine, da parte della donna amata da Orfeo, il poeta ferrarese raggiunge una sintesi luminosa tra equilibrio formale e profondità della pronuncia («la tua fu infedeltà / e consumasti d'impazienza il tempo, / e lo facesti impuro»): quel tempo conteso, anche nella poesia di Andreotti, tra sviluppo lineare e circolare e frammentazione liquida e puntinista, per dirla con Bauman.
Al canto è affidata una funziona salvifica, una volta preso atto della violenza della storia, «un'ocra rossa, / che sia di sangue o di melma», che non può che generare ferite («Cerca tra l'erba il canto, / cerca la voce che sa guarire»), e ancora «Anima mia, guarda quel volto e canta / la compassione che può avvicinarci». Quella compassione, quel sentire insieme in senso etimologico, che apre le porte alla relazione io-tu, a quell'incontro su cui Martin Buber ha saputo dire parole profetiche, a un fluire dell'Io in un'accezione quasi panteistica, avvicinandolo, nelle sue peregrinazioni, all'esperienza del dono, inteso in accezione platonica: un dono senza resa, che non è scambio, né pratica utilitaristica, ma gesto disinteressato, dal quale ripartire dopo essersi voluti e riconosciuti stranieri e migranti.
Angelo Andreotti, che non a caso fa parte del gruppo fondatore dell'Accademia del Silenzio, nata da un'idea di Duccio Demetrio, da un immobile silenzio padano prende le mosse, là dove «l'orizzonte continuamente accade senza tregua», per consegnarci una parola alta e purificata affrancata dal brusio della modernità.
Daniele Serafini
(in Tratti, n. 92, febbraio 2013, pp. 137-138)
Angelo Andreotti, Parole come dita
Mobydick, Faenza 2011, pp. 104, € 16,00