Marco Lombardi. Pietro Mennea, un campione completo | | 21 Marzo 2013
C'è stato un tempo, nella storia dello sport, in cui per correre ci si allenava correndo, per nuotare nuotando, per lottare lottando e così via. Il doping c'era già, forse rispetto ad oggi anche più dannoso per la salute, ma nonostante ciò al corpo dell'atleta si chiedeva solo di esprimere la bellezza del gesto tecnico. Correre, ad esempio, per quanto movimento naturale richiede coordinazione eccezionale, dove forza esplosiva e resistenza si fondono assieme dal calcagno in appoggio fino al mignolo della mano, che spinge via l'attrito dell'aria facendosene slancio. È in questo senso che Pietro Mennea era un atleta.
La sua carriera agonistica, per alcuni troppo presto interrotta, è invece durata neppure un minuto oltre quel limite in cui il corpo perde l'energica armonia del gesto. Comparare la stazza di quel suo corpo, di allora, con i moderni umanoidi prodotti in batteria da un uso smodato di pesi ed integratori per fare massa, come si dice in gergo, è impossibile. Così come impossibile sarebbe proporre ad una qualunque stella dell'atletica leggera di oggi il programma di allenamenti che egli seguiva meticolosamente, massacrante fino quasi all'esaurimento nervoso prima che fisico, ma grazie al quale la “freccia del sud” divenne l'uomo più veloce sulla terra. Sarebbe come mettere a confronto l'acquatica eleganza di Spitz con la scoordinata prepotenza di Phelps, la raffinatezza calcistica dei vecchi numeri dieci con le palestrate stelle della Champion League.
Oggi, pur di infrangere record inumani, è considerato ovvio sacrificare la bellezza del movimento tecnico, sopperendola con la voluminosità di icone statuarie che però si rivelano sorprendentemente fragili e nel corpo e nella mente. Mennea, al contrario, era un campione completo, esponente di una categoria di normodotati che sapeva fare cose fuori dal normale con la prevalente ed umile forza del sacrificio. Un esempio, oltre lo sport.
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