Lo scaffale di Tellus
Sergio Caivano. Le lettere dei partigiani italiani 
Le ultime testimonianze nel libro “Io sono l’ultimo” (Einaudi)
26 Settembre 2012
 

L’inevitabile trascorrere del tempo riduce, anno dopo anno, il numero dei partigiani. Lo sa bene l’Anpi, che ne conta oggi solamente 9.800. Stimando in 4/5 mila i patrioti non iscritti all’associazione, si arriva ad una cifra attorno alle quindicimila unità. Poche, troppo poche rispetto agli oltre trecentomila, uomini e donne, che fecero la scelta di combattere il nazifascismo per la riconquista della libertà e dell’onore perduti. Si ha oggi la piena consapevolezza che il tempo stia per esaurirsi, col rischio di cancellare tante storie.

Esattamente sessant’anni dopo la pubblicazione delle Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana, Einaudi propone oggi il libro, dal titolo significativo: Io sono l’ultimo, costituito da oltre cento lettere di partigiani italiani che hanno inteso aderire all’iniziativa dell’Anpi per testimoniare la loro esperienza, per lo più inedita, e che sono state scelte dai curatori dell’iniziativa Stefano Faure, Andrea Liparoto e Giacomo Papi. Il titolo del libro viene inconsapevolmente suggerito dal partigiano Marcello Masini “Catullo” di Firenze, classe 1925 che, invitato a parlare di Resistenza ai ragazzi delle scuole, dice: «Guardate, sono rimasto solo io. Allora diventano ancora più interessati. Io sono l’ultimo». In questo bel libro ci sono i ricordi, le testimonianze, le sensazioni, le emozioni, la paura, il coraggio, l’odio anche verso i nemici di allora, ma non solo: ci sono gli innamoramenti, gli amori anche profondi, quelli conservati per sempre e quelli perduti. E poi il racconto delle torture, delle impiccagioni, dei rastrellamenti, delle bombe alleate. Ci sono diciotto mesi per alcuni, per altri meno, vissuti intensamente e che resteranno nel loro cuore per tutta la vita. Ci sono gli italiani che seppero ribellarsi alla dittatura, all’imposizione, all’ingiustizia, alle guerre stolide e già perse. Ci sono i patrioti che riscattarono agli occhi del mondo l’immagine dell’Italia, restituendoci l’onore e la dignità perduti. Loro, quelli che hanno fatto la Resistenza, hanno rilasciato oggi testimonianze temperate, in parte, dal tempo, ma che rendono chiaro, in modo semplice e coinciso, il loro pensiero.

Mi pare corretto, a questo punto, lasciare ai partigiani la parola, riportando alcuni brani tratti dalle testimonianze, talvolta rese più coincise, senza sottoporle ad alcun commento.

 

Anita Malavasi “Laila”, Reggio Emilia 1921 – Staffetta partigiana, CXLIV Brigata Garibaldi “Antonio Gramsci”, Appennino reggiano. Si chiamava Giambattista, ma il suo nome di battaglia era “Fifa”, anche se era coraggiosissimo. È morto nel 1944, a ventitré anni. L’ho saputo sei mesi dopo, a primavera, quando la neve si sciolse sul Monte Caio e il corpo fu ritrovato. Gli porto ancora i fiori. Dev’essere stato importante per me, se mentre ne scrivo me lo rivedo davanti agli occhi. L’unico nostro bacio è stato d’addio.

Leandro Agresti “Maleo” 1924, Barberino di Mugello (Firenze) – Meccanico, sergente maggiore, Brigata Garibaldi “Bruno Fanciullacci”, Toscana. Un giorno c’erano 126 ragazzi delle scuole. Misero in scena uno spettacolo che parlava dal 1921 fino alla Liberazione. Mi sentii un nodo in gola. E pensai che i ragazzi avevano capito. Se avete qualcosa da chiedere, chiedetelo ora. Se c’è qualcosa d’interessante, domandate. Io basta che chiudo gli occhi, e mi rivedo la scena.

Libero Traversa “Aiace”, Milano 1930 – Studente, partigiano Brigata Rosselli di GL XXIII Distaccamento, Milano. Nell’autunno ’44 eravamo studenti del Cattaneo di Milano, tutti tra i 15 e i 16 anni. Costituimmo una squadra di cinque membri all’interno del 23° Distaccamento della Brigata Rosselli di GL. La squadra operava in città clandestinamente con azioni di propaganda e militari. Caposquadra era “Luigi”, nome di battaglia “Ulisse”, mentre io divenni “Aiace”. Eravamo freschi di “Iliade”. La nostra attività consisteva nel lancio di volantini antifascisti nei teatri e nei cinema, sui mercati ambulanti, davanti alle scuole e alle università, fuori dalle fabbriche all’uscita degli operai e sul sagrato delle chiese al termine della messa. Più volte fummo rincorsi dai fascisti con relative sparatorie nelle vie di Milano. Partecipavamo come pali alle azioni di disarmo dei fascisti, compiute da squadre partigiane durante il coprifuoco notturno.

Carlo Varda “Charles”, Chiomonte (Torino) 1925 – Ferroviere, Divisione Chisone, Brigata Assietta, Val di Susa, Val Chisone. Una sera del 1971, sento suonare il campanello di casa. Era un tedesco. Dice che ha piacere di parlare con un comandante partigiano. Lo riconosco. E dopo un momento, gli dico: – Lei ha ucciso mio padre.

Gina Saracco “Gina”, Torino 1926 – Studentessa, V Divisione GL, Brigata Val Germanasca, Piemonte. In definitiva, i fascisti del dopo 8 settembre erano gente un po strana. Non è che fossero proprio normali. Anche se si sentivano alla fine, loro lo facevano. Anche il giorno prima, lo hanno fatto. Fino all’ultimo. E qualcuno di quelli giustiziati a Pinerolo sono stati uccisi perché fino all’ultimo lo hanno fatto. I fascisti direi che erano peggio dei tedeschi. Ma paura ce l’avevano. Si chiudevano a casa littoria di notte, e non uscivano per nessun motivo. Non vedo perché i giovani di adesso non dovrebbero fare quello che abbiamo fatto noi. Sono le circostanze. Se le circostanze fossero quelle di allora, credo che i giovani di adesso lo farebbero anche loro. Sono come noi tanti anni fa. Noi siamo contenti di averlo fatto. Io, sono sempre contenta..

Giuseppe Platinetti “Pippo”, 1923 – Marinaio, comandante CXXIV Brigata Garibaldi “Pizio Creta”, Volante Loss, Valsesia, prov. di Novara. La mia lotta per la libertà era ormai terminata, ma doveva riservarmi una sorpresa. E proprio il 25 aprile. Ero in partenza per Milano, a Novara, davanti al cinema Coccia, quando ho visto un gruppetto di ragazze in divisa partigiana. Ho avvicinato la più carina per attaccar discorso. Non l’avevo mai vista, ma era molto conosciuta: era Andreina, figlia di Carlo Cecchini, direttore di zona della Stipel e partigiano. Il padre intercettava le telefonate dei fascisti e dei tedeschi e consegnava i messaggi alla figlia che li portava al comandante Moscatelli. Andreina ed io ci siamo sposati l’anno dopo.

Carlo Lamberti, Montefiorino (Modena) 1924 – Militare, partigiano Brigata Garibaldi “Ugo Stanzione”, Appennini Modena e Reggio Emilia. Sono molto deluso. Non ho grande ottimismo per il futuro. Noi tra un po’ moriremo e andremo tra quelli che non hanno più bisogno di pane. Rimarrete voi. Tutto intorno c’è un frastuono di cose banali. Forse abbiamo perso.

Domenico Benedetti, San Zaccaria (Ravenna) 1925 – Studente, partigiano XXVIII Brigata Garibaldi “Mario Gordini” prov. di Ravenna. Prima della Resistenza le guerre erano sempre state guerre sotto padrone, guerre fatte per combattere un padrone straniero che aveva invaso la nostra Italia. La Resistenza non ebbe padroni. La Resistenza il padrone lo ha ucciso

Tullio Ferrari “Tonio”, Modena 1920. Agricoltore, partigiano II Div. Modena, Brigata W. Tabacchi. Fui scaraventato come una bestia in quell’inferno buio. Al mattino fui interrogato, non parlai e così mi portarono fuori, dove erano stati appena assassinati altri partigiani. Il plotone di esecuzione era già pronto. Mi appoggiarono al muro: fui percorso da una sensazione di freddo, di vuoto. Era una mossa per farmi parlare, mi riportarono dentro in quella che divenne una sala di tortura. Mi picchiarono a sangue con un travetto, mi strapparono le basette e via discorrendo. Capii che era peggio della fucilazione. Gli altri compagni che erano con me non mollarono e resistettero anch’essi alle torture: nomi e rete organizzativa erano in salvo.

Stefano Porcù “Nino”, 1925 – Studente, commissario Divisione Garibaldi Cichero- Appennino ligure. Ho conosciuto molte partigiane, tutte brave buone e care, ma una in particolare. Si chiamava “Carma”. Era madre, sorella, amica, una compagna. Era tutto per me. Avrei dato la vita per lei, e lei per me. L’hanno presa i fascisti. L’hanno torturata e uccisa. Non se ne è più trovato neppure il corpo. Non ho neppure una tomba dove portare un fiore. Il suo nome l’ho saputo solo dopo la Liberazione. Si chiamava Maria Macellari.

Giovanni Pantano, 1929 – Partigiano, Capodimonte (Napoli). Era l’alba del 29 settembre 1943. Avevo compiuto 14 anni da poco. Erano le 6 del mattino e transitavo per via Santa Teresa degli Scalzi a Napoli, per raggiungere il mio posto di lavoro quale apprendista in un calzaturificio di via Costantinopoli. Sentii dei colpi d’arma da fuoco. Mi girai. Vidi tre corpi senza vita all’ingresso di un panificio. Una giovane donna, un uomo e un bambino. Diressi lo sguardo dall’altra parte della strada. Una jeep tedesca si allontanava di corsa. La lotta partigiana era iniziata da poche ore. La sera stessa mi unii agli insorti che operavano a nord di Napoli.

Giacomina Castagnetti-Roccolo, di Quattro Castella (Reggio Emilia) 1925 – Contadina, Gruppi di difesa della donna prov. di Reggio Emilia. Avevo 18 anni, l’8 settembre 1943, quando si cominciò a dare assistenza ai soldati scappati dal fronte per evitare l’arresto e la deportazione. Anch’io capii che potevo far qualcosa contro la guerra. Quando si formarono i primi gruppi partigiani per me fu naturale aderirvi. Ho fatto la staffetta. Sappiate che non sono un’eroina, perché tante donne hanno fatto come me e più di me.

Guido Cabri “Guido”, Brione (Brescia) 1926. Meccanico, caponucleo XVII Brigata Garibaldi F. Cima, Val di Susa. Sono un partigiano combattente. Ci sono cose che non racconto quasi mai, perché mi vergogno per quelli che le hanno fatte. Ma io non dimentico e non perdono. Anche dopo tutti questi anni, piuttosto che dare la mano a un repubblichino, me la taglio. Parlano di rappacificazione, ma per me non è possibile rappacificarsi con quella gente. Se avessero fatto la guerra contro di noi avrei accettato la loro posizione, ma i comportamenti non sono stati quelli che dovevano essere. Noi non abbiamo mai seviziato nessuno, anche se potevamo fucilare una spia perché avevamo l’ordine di farlo, ma non abbiamo mai infierito in quel modo sulle persone morte e non abbiamo mai bruciato le case.

Giovanna Stanka Hrovatin “Stanka”, Trieste 1929 – Studentessa, staffetta IX Corpus Comando città di Trieste, Trieste e Carso triestino. Alzai gli occhi per attraversare la via Nazionale e vidi Rozalija penzolare da un albero. Rimase appesa a quell’albero per due giorni, perché tutti potessero vederla, con la scritta «Ich bin Bandit». Una domanda mi perseguitava: perché?, perché? Le intimidazioni alla popolazione continuarono sempre più brutali ma altrettanto vane. Ci furono altri arresti, deportazioni, fucilazioni, impiccagioni. Ogni arresto significava uno strappo alla lotta, ma ogni volta veniva ricucito. Altri compagni prendevano il posto dei caduti. Oggi ci sono tentativi di dare alla Storia interpretazioni riduttive, di mistificarla. Ogni ricordo è un momento di riflessione per riaffermare nelle nostre coscienze i valori che animarono la lotta di Liberazione e la Resistenza.

Liliana Benvenuti Mattei “Angela”, Firenze 1923 – Impiegata, staffetta Comando Div. Arno, Toscana. Sui fascisti. Non si possono prendere tante persone insieme e dire che sono eguali solo perché hanno la stessa camicia. Ricordo due ragazzi entrati nella Repubblica di Salò. Morti. Voi non avete idea del dispiacere. Però c’è quello che ha detto Alberto Asor Rosa: «Dietro il milite delle brigate nere più onesto, più in buonafede, più idealista, c’erano i rastrellamenti, le operazioni di sterminio, le camere di tortura, le deportazioni e l’Olocausto; dietro il partigiano più ignaro, più ladro, più spietato, c’era la lotta per una società pacifica e democratica, ragionevolmente giusta, se non proprio giusta in senso assoluto, ché di queste non ce ne sono». Questa è la verità.

 

Dopo aver inviato la loro testimonianza, nove sono scomparsi. Tra di essi, alcuni di quelli ricordati in questo scritto, e precisamente Anna Malavasi, Domenico Benedetti e Guido Carbi. Che i loro nomi, le loro storie restino impressi nella memoria degli italiani.

 

Sergio Caivano


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