Manuale Tellus
“Torneranno forse…” Renzo Nanni e i poeti del ‘900 
Testo a cura di Maria Lanciotti per ricordare ‘un poeta che non cercava gloria’
Disegno di Guttuso, 1946 - in
Disegno di Guttuso, 1946 - in 'L'avvenire non č la guerra', Il Canzoniere, 1952 
30 Agosto 2012
 

Questo testo è stato utilizzato più volte per eventi multimediali in ricordo di Renzo Nanni (1921 – 2004). La prima volta l’evento si è svolto nell’Antico Casale di Colle Ionci a Velletri (Rm) il 1° aprile 2009, a un lustro dalla scomparsa del poeta, con più voci recitanti, il coro Nikolajewka e la proiezione di foto di repertorio e di brani del film Italiani brava gente del ‘65.

 

 

Torneranno forse...

 

Rinnovate carezze d'alghe,

anfratti di teneri indugi,

sabbie rifatte limpide,

miracoli di nuove vite. Svaniti

i fondali di cenere

dei troppo ingordi barconi di nafta.

 

Ragnatele tremule di rugiada,

intrighi d'aghi gocciolosi

nel tempo mutevole

della cerca dei funghi.

 

Amarsi all'alba

e tornare a dormire

sognando bambini

come grappoli d'uva.

 

Passi a incrinare il ghiaccio

contro questi inverni

sfiniti di scirocchi.

 

Le murette delle chiocciole

di fine temporale, striscianti

lente manovre d'antenne

nei giri brevi infiniti

dei miei quattro passi fuori casa.

 

Torneranno a rami di bosco

gli scoiattoli imbalsamati nei bar.

 

Le gocciolanti grigliate

e il fraterno bere al fiasco,

prima dei bicchieri di plastica.

 

Il senso estetico

del mangiare.

 

I nostri canti inascoltati,

i canti che furono bandiere.

 

La terra coi suoi biondi

capelli di grano, rose accese

di sangue recuperato: mai più

le schiere di fucili a mietere.

 

Renzo Nanni

(Da Una vita quasi un secolo, Caramanica Editore, 2003)

 

 

Le Divisioni Alpine dall’ARMIR (Armata Italiana in Russia) partirono dall’Italia nel giugno 1942, convinti tutti di essere diretti al Caucaso.

Invece superiori ordini comandarono l’interruzione del viaggio a Jsjum, sul fiume Donez, e gli Alpini dovettero, senza armi e mezzi adatti alla guerra di pianura, raggiungere con lunghe marce la linea del fronte che correva sulla riva del Don.

Combattimenti di particolare violenza si ebbero nella seconda metà di dicembre, finché il 15 gennaio 1943 iniziò la ritirata, dovuta non ad uno sfondamento frontale da parte dei russi ma ad un arretramento, forse preordinato, di reparti tedeschi e, sembra, ungheresi, ai lati estremi dello schieramento italiano.

Così si formò la “sacca” e, in essa, più sacche minori, ossia accerchiamenti rapidamente effettuati da carri armati, che bloccarono i punti di passaggio obbligato lungo le poche “piste” che si snodavano sui dossi delle colline (gli avvallamenti erano troppo colmi di neve) verso occidente.

L’accerchiamento, sconvolgendo le retrovie e i Comandi superiori, tolse possibilità di collegamento e coordinamento tra Divisioni e persino tra Battaglioni, tanto che si formarono, nel costretto ripiegamento, più colonne e diversi furono gli itinerari seguiti.

Punto di passaggio d’obbligo, sulla via di Belgorod, fu per tutti Nikolajewka, al limite della grande sacca. Qui infuriarono i maggiori combattimenti, culminati in quelli leggendari del 26 gennaio.

Fuori dalla sacca, in giorni e giorni di marce per villaggi distrutti o semivuoti, la decimazione fu compiuta dal gelo, dal sonno, dalla fame, finché al termine della prima decade di febbraio può dirsi che i superstiti, raggiungendo a Belgorod la prima ferrovia funzionante, poterono contare sulla salvezza.

Poche centinaia d’uomini di contro ai quasi centomila morti.

(Nota tratta da Minuscoli su pagina bianca, Forum/Quinta Generazione, 1982; di Renzo Nanni, fra i superstiti della leggendaria Divisione Julia, Ottavo Reggimento)

 

 

Solo dopo diversi decenni, e la pubblicazione di alcune altre raccolte poetiche, Renzo Nanni riuscirà a raccontare col poemetto “Minuscoli su pagina bianca” la tragica avventura della guerra in Russia, iniziando dalla partenza alla stazione di Udine.

Alla voce del poeta Nanni si aggiungeranno, man mano che la disperazione renderà delirante il vano girovagare nella steppa russa, le voci dei poeti del ‘900 che, per assonanza o contrasto, saranno richiamati alla mente.

 

 

Dimensione di tempi concordi/ discordi”

sulle nevi di Russia

 

 

La partenza

affacciati

alla carrozza quel tiepido mattino

friulano. Il giugno del via,

tutta la città assiepata a contare

la mejo zoventù”, toccando i troppi lutti

i troppo sacri destini consumati

in troppo dolorosi mondoboia.

Ciao, pais. Addio,

strade dell’ultima notte

di sante sbornie a sparare

a gara contro i lampioni.

 

Incontro col padre

Cancellata natura, tutto

è punto strategico, doloranti

boscaglie devastati greti nevi

scolorate di cielo. Quel bosco

a Nikolajewka: sparavano

gli alberi all’ordine di correre

contro un centro di fuoco. Le maglie

della sacca cercavamo

lepri braccate – lo squarcio

verso il caldo di casa.

In questo convulso confondersi

di date, di legnose cadenze trascinando

piedi secchi di gelo, perenni ciglia

serrate, in questo mio

ritornante girovagare per vaste

steppe degli anni

dubbiosi dei laceranti dolori

risolutivi, trovo memoria di te

padre che le guerre

l’hai fatte tutte – dicevamo ridendo – da quelle

garibaldine. Nitida memoria: ore tredici

del 16 gennaio, ti vidi

dopo l’interminabile notte vidi

la tua colonna d’appuntamento. Località

Marijewka sotto vasta solenne

collina ondosa.[…]

Mi attendevi sapevi della nostra

colonna tenevi in serbo l’ultima

cotoletta con patate l’ultima

mensa di fortuna. […]

 

fu proprio

ai primi bocconi, la neve

della collina mosse fiamme,

ombre soverchiarono il filo

dei cieli. La Julia in sacca, forse

la fine delle glorie straccione

la serpe

d’uomini sparsa: dissolte grida dissolta

la vita da correre a perdifiato.

Ora passi maldestri ubriachi,

lontani i giorni delle

occasioni perdute a dire tanto

il tempo è tutto domani

su svelti a fare gli eroi,

la striscia d’eroi lucertola zoppa…

 

Nella steppa

Inseguivamo miraggi

di binari impossibili

nel vuoto fatto alle spalle

dalla fuga tedesca, prevista

ritirata strategica. Noi

a intralciare le piste a tardare

l’armata rossa noi fanti muli carri

così utili rottami a coprire

i reparti del terzo Reich. Fiutavamo

direzione occidente”…

 

Amore di vita fu

l’inedito spiarsi a file parallele

coi lupi rasente la boscaglia,

pazienti lupi accordati ai nostri

disperati viaggi alle nuove

paure: finirà come in giochi

di circo finirà con lo schiocco

di frusta fuori tempo maldestro

di un invisibile domatore.

Difficile a mani gonfie strappare

carne di mulo intascarla

dosarla masticarla tipo chewing–gum

ridere inebetiti cercando

carcasse monumentali. Più facile

finire il cavallo insonnolito

di gelo, già immobili gli occhi

acquosi di fratello d’armi, eco

di ariostesche contese reminiscenza

di banchi di scuola…

 

mie

lontane memorie riaccostate

a intiepidire questo illogico inverno

questa pena di gesti impreveduti.

Amore, ancora non ipocrita menzogna

ancora fuori dai ruoli coltivati

sulla conta dei giorni di servizio ancora

la sequela dei giorni elementari:

bicicletta nuvole capelli

di ragazze ventosi, questi i desideri

evocati per reggerti in piedi quando

cadevi con tonfo di sonno…

 

 

Majakovskij

Due frasi.

Pesanti come un colpo.

A Cesare quel che è di Cesare, a Dio quel che è di Dio”.

Ma uno

come me

dove potrà ficcarsi?

Dove mi è apprestata una tana?

 

Saba

un angolo

cerco nel mondo, l’oasi propizia

a detergere voi con il mio pianto

dalla menzogna che vi acceca. Insieme

delle memorie spaventose il cumulo

si scioglierebbe, come neve al sole.

 

 

Nella steppa

Chi cadeva come sorreggerlo

come leggere il nome sul piastrino

come chinarsi a rischio

di restare sul bordo della strada

straccio di mantellina cappello

col solo nome disperso? Allora

su in piedi fingendo

trapassati traguardi di ombrelloni

di prima fila, stravaccati a riva,

rovesciati nel salso, la sete di te.

 

 

Majakovskij

S’io fossi

piccolo

come il grande oceano,

sulla punta delle onde m’alzerei,

carezzerei la luna col mio flusso.

Dove trovare un’amata

che mi somigli?

 

Saba

La vita è così amara,

il vino è così dolce;

perché dunque non bere?

Ogni triste pensiero

tu abbia nella mente

ti si muta in letizia.

 

Quasimodo

Aspra pena del nascere

mi trova a te congiunto;

e in te mi schianto e risano:

povera cosa caduta

che la terra raccoglie.

 

Nella steppa

Memorie, via. Sopraffatte dall’urlo viscerale:

il cibo il latte il tiepido

rifugio dove passare la notte.

Guai se non scorgevi quel fumo

di piccoli gruppi d’isbe.

Stanarle dagli ammassi di neve,

evocati riposi per tornare,

nell’attimo di veglia, uomini.

 

Saba

La stazione ricordi, a notte, piena

d’ultimi addii, di mal frenati pianti,

che la tradotta in partenza affollava?

Una trombetta giù in fondo suonava

l’avanti;

ed il tuo cuore, il tuo cuore agghiacciava.

 

Quasimodo

Dimenticate, o figli, le nuvole di sangue

salite dalla terra, dimenticate i padri:

le loro tombe affondano nella cenere,

gli uccelli neri, il vento, coprono il loro cuore.

 

Penna

Amavo ogni cosa nel mondo. E non avevo

che il mio bianco taccuino sotto il sole.

 

 

La morte di Mariano

Questa a te, Mariano, che non vidi morire,

Mariano invadente fratello

dei banchi di scuola compagno

a dividere insieme l’ascolto

dei nostri versi forsennati d’aria

sillabati sui fossi delle rane

nel campo di tuo padre. […]

fosti il primo

disperso brandello di me.

 

Quasimodo

a questa quiete di cieli in rovina

accade l’infanzia inesistente.

Nei moti delle solitudini stellate,

al rompere dei grani,

alla volontà delle foglie,

sarai urlo della mia sostanza.

 

Penna

Giunto fra un incrociar di lenti carri

stretti fra un indugiar di lenti affetti.

Sotto il cielo mirando i caldi tetti

esitavo nel sole fra i ramarri.

 

Montale

E tu camminante

procedi piano; ma prima

un ramo aggiungi alla fiamma

del focolare e una pigna

matura alla cesta gettata

nel canto; ne cadono a terra

le provvigioni serbate

pel viaggio finale.

 

 

I dispersi

Si chiamava Nowj–Oscol: la teoria

dei mutilati supplichevoli ai bordi

della nostra sfilata. Mollati

da un ospedale tedesco. Lasciarono

i nostri – sono gli ordini – sono

i nostri questi fanti della beffa

questi corpi di gelo dimezzati

queste secche mani nel vento

a sventolare fogli timbrati valevoli

trasferimento in altri ospedali: provate,

via libera, grattate la neve, fatevi

trascinare dai vostri, quel branco

di noi punti neri all’orizzonte.

 

Penna

Una cadenza insiste: quasi lento

respiro di animale, nel silenzio,

salpa la valle se la luna sale.

Altro respira qui, dolce animale

anch’egli silenzioso. Ma un tumulto

di vita in me ripete antica vita.

Più vivo di così non sarò mai.

 

Montale

Forse un mattino andando in un’aria di vetro,

arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo:

il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro

di me, con un terrore di ubriaco.

 

Ungaretti

Cessate d’uccidere i morti,

non gridate più, non gridate

se li volete ancora udire, se sperate di non perire.

Hanno l’impercettibile sussurro,

non fanno più rumore/ del crescere dell’erba,

lieta dove non passa l’uomo.

 

 

 

I dispersi

Svanivano

i punti neri con brevi

brusii, qualche nota di appelli

inutili, a volte qualche

frase di canto deformata

su strofe da osteria (le gioiose

taverne affumicate di sigari

e grappa, tra i monti di casa:

Tolmezzo Tarcento e tu

la più distrutta, Gemona dei sempre

terremotati.

Cantava

un vecchio ragazzo, sulla neve così

uguale e lontana:

Motorizzati/ a piè – la plume sul ciapel –

gli zaini sfracellati – l’alpin

l’è sempre quel”.

 

Montale

Non recidere, forbice, quel volto,

solo nella memoria che si sfolla,

non far del grande suo viso in ascolto

la mia nebbia di sempre.

 

Ungaretti

Una donna s’alza e canta

la segue il vento e l’incanta

e sulla terra la stende

e il sogno vero la prende.

Questa terra è nuda

questa donna è druda

questo vento è forte

questo sogno è morte.

 

 

Hikmet

E nevica.

E forse

I tuoi piedi nudi gelano.

Nevica…

Ed ecco

in quest’istante

che io penso a te con tutto il mio cuore,

forse

una pallottola spezzerà la tua vita

e per te non ci sarà più

neve

né vento

né notte

né giorno…

 

 

Márusa

 

Rivedo Márusa, la maestrina

bionda di Popowka, le nostre

divertite prove di parole, il libro

dove tra storie di feudali soprusi

mostravi soddisfatta lo storico

legame tra noi, la figura

veneranda di Garibaldi ritratto

come santo da icona.

Rabbiose

memorie: ora so di certo quanto

risolutivi quanto valorosi

quegli strazi di carne rivelata

quanti solchi segnaste per i passi

futuri quando a ritmo cosacco

sarete voi, alpini di Boves,

a intonare “fischia il vento”, nell’impeto

di scarpe rotte a ricominciare la storia.

 

Ungaretti

Un’intera nottata

buttato vicino

a un compagno

massacrato

con la sua bocca

digrignata

volta al plenilunio

con la congestione

delle sue mani

penetrata

nel mio silenzio

ho scritto

lettere piene d’amore.

Non sono mai stato

tanto attaccato

alla vita.

 

Hikmet

Tra noi due, fratello,

ci sono i mari e i monti,

e le mie maledette catene,

e le prescrizioni

del comitato di non intervento…

Non posso venire da te,

non posso mandarti di qui

né una cassa di cartucce

Né uova

né un paio di calze di lana…

 

Elsa Morante

I mandolini

saranno massacrati nel grand–guignol fanciullesco

delle rivoluzioni, delle erbe assassine e delle fami,

quando una mezzanotte, fra bestemmie adoranti,

la stella in forma d’aquilone si staccherà

dal carro di Boote.

O adolescenti, buffoni di Dio!

 

 

La scelta alpina

Amici addio,

fratelli degli ultimi

mesi di interrogative scoperte, voi

boscaioli saltuari minatori snidati

dai confini di casa, fortunati incontri

della mia scelta alpina quando

recluta stordita di campeggi

piombai dalle piazze variopinte

delle parate (nientemeno

dalla Capitale – liceo classico – romanità

nel fondo della valle dove scritte

alterate ironizzavano “ch’a cousta

lon ch’a cousta via da l’Aousta…”

 

Hikmet

È notte.

Nevica.

Davanti a te hai l’armata dei nemici,

che è venuta per uccidere

tutto ciò che c’è di più bello:

la libertà,

il sogno,

la speranza

e i ragazzi. E nevica.

 

Pavese

Uno crede che dopo rinasca la vita,

che il respiro si calmi, che ritorni l’inverno

con l’odore del vino nella calda osteria,

e il buon fuoco, la stalla, e le cene. Uno crede,

fin che è dentro uno crede.

 

 

Elsa Morante

E le frutta raccolte dalle nuvole esperidi

saranno bevute sulla terrazza nella vicinanza della sera

quando la pace d’esser nati si celebra

come dopo una vittoria.

 

 

 

La scelta alpina

Perdono

per gli alalà, fratelli sterminati

quei giorni sotto zero, i giorni

delle follie. Pazzo perfino

il cappellano militare dell’ “adeste

fideles” uscito di fila

occhi vuoti alla cerca

di chissà che orizzonti trasognati, tuffato

nel suo mare di tacite

indecifrate visioni…

 

Luzi

Io sono qui, persona in una stanza,

uomo nel fondo di una casa, ascolto

lo stridere che fa la fiamma, il cuore

che accelera i suoi moti, siedo, attendo.

Tu dove sei? sparita anche la traccia…

 

Garcia Lorca

Sbagliar strada

è arrivare alla neve

è arrivare alla neve

è pascolare per venti secoli le erbe dei cimiteri.

 

Montale

Ora sia il tuo passo

più cauto. A un tiro di sasso

di qui ti si prepara

una più rara scena.

 

 

Sotto i colpi della katiuscia

Altri solchi, vangate d’odio

aprì “Katiuscia” – dolce nome – la grigia

katiuscia mortaio a trentasei colpi.

Nikolajewka lamento presente,

Nikolajewka delle cacce tra l’isbe,

del rimpiattino equivoco, di te

Rigoni Stern – peccato che allora

non ti vidi, questione d’ore, non seppi

quel sapore di zuppa consumata

tra amici–nemici, la donna

tacita nel rito di pace.

 

Pavese

...nella nebbia d’inverno

l’uomo vive tra muri di strade, bevendo

acqua fredda e mordendo un pezzo di pane.

 

Garcia Lorca

Ma se la neve sbaglia cuore

può venire il vento ostro

e poiché il vento non bada ai gemiti

dovremo pascolare ancora le erbe dei cimiteri.

 

 

Campana

Trovo l’erba: mi ci stendo

a conciarmi come un cane:

da lontano un ubriaco

canta amore alle persiane.

 

 

La pagina bianca

Automezzo sventrato: corre l’occhio

al grigio oggetto imprevisto,

fantastico incontro, emozione di vecchi

progetti coltivati ragazzo al lume

di fortuiti tavoli di studio. “Adler”,

magica etichetta, proprio lei

tra le marche insperate, una

macchina da scrivere, solida

fabbricazione tedesca. Due ore

ansimammo a turno con mio padre

trascinando per scivoli di neve

lo scrigno di parole inespresse, l’attesa

di me votato a battere pagine

di tracce durature…

 

Garcia Lorca

Vogare, vogare, vogare, vogare

verso il battaglione di punte disuguali

verso un paesaggio di agguati polverizzati.

 

Sibilla Aleramo

Smarrivamo gli occhi negli stessi cieli,

meravigliati e violenti con lo stesso ritmo andavamo,

liberi singhiozzando, senza mai vederci,

né mai saperci, con notturni occhi.

 

Neruda

E io, minimo essere,

ebbro del grande vuoto

costellato,

a somiglianza, a immagine

del mistero,

mi sentii parte pura

dell’abisso, ruotai insieme alle stelle,

il mio cuore si distese nel vento.

 

 

 

La pagina bianca

E scrivi,

dunque, batti ora l’ascolto delle grida

che spuntano sul bianco come fiamme

di parole che contano, lascia

che parli questa pagina bianca,

questa terra incontrata sulla mia

guerra ventenne, d’ora in poi

la più ardua proposta, il coraggio

di soffrire parole semplici.

 

Neruda

Io non sapevo che cosa dire, la mia bocca

non sapeva

chiamare per nome,

i miei occhi erano ciechi,

e qualcosa pulsava nella mia anima,

febbre o ali perdute…

 

E. F. Accrocca

quando il suono

delle parole avrà il significato reale

delle cose…

bruceranno le caserme dell’anima.

Quel giorno cresceranno ragnatele

dentro le canne dei fucili.

 

Emily Dickinson

E’ poca cosa il pianto,

sono brevi i sospiri:

pure, per fatti di questa misura

uomini e donne muoiono!

 

 

Conclusione provvisoria

Dovevo

scrivere lo vedete dovevo finire

di colmare di me quella pagina bianca

lontana pagina, recuperare

canzoni, rabbia d’amore, attese

d’altri approdi nel tempo

fatto allora spazioso, tutto il mondo

da dire, con tutte

le mie memorie tornate a esplodere.

––––––––––––––––––––––––––

 

 

Presto ci desteremo

Presto ci desteremo

coi morti sulle labbra

divenuti canzoni, in un sole

che spianerà le borgate

di baracche e le memorie

logore come vecchie tute operaie.

 

Renzo Nanni

(da L’avvenire non è la guerra, Il Canzoniere, 1952)

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