Le Rose di Gerico
Per due anni un tumore si è nutrito di mio nonno come di un cibo da piluccare. Lo ha scarnificato lentamente. Brandello di carne dopo brandello di carne. Ruga dopo ruga. Muscolo dopo muscolo. Solo la pelle rimaneva, appiccicata a quelle ossa che non volevano saperne di decomporsi. La pelle ed i peli del corpo. I suoi baffi, bianchi ed ispidi. I pochi capelli, schiacciati sulla fronte calva e lucida. La lanugine delle guance. E le sopracciglia, che in quella sera d'estate, nel suo letto d'ospedale, si alzavano ed abbassavano come luci ad intermittenza. L'ultima parola che disse, prima di addormentarsi per sempre, fu Kartoffeln. O meglio Kartoffelnsuppe. Zuppa di patate. Poi il tumore lo prosciugò come un bicchiere d'acqua inghiottito dal deserto.
Eppure non era la prima volta che il male lo consumava dall'interno.
Aveva combattuto in Albania durante la seconda guerra mondiale: militare diciottenne caduto in un gioco infinitamente più grande di lui. Con l'armistizio del '43 era diventato una di quelle Badogliotruppen infide e traditrici. Dileggiato, insultato, catturato dai nazisti, e deportato dai Balcani con i treni piombati. Internato a Berlino, nei campi di lavoro della Luftwaffe. Con gli altri disertori italiani costruiva le V1, le bombe che illuminavano le paure delle notti londinesi. Era uno degli ottocentomila soldat perdu raminghi in Germania: i “soldati perduti” abbandonati dalla Patria, dall'Esercito, dagli Alleati.
Lavorava quasi quattordici ore al giorno, tra il caldo infernale degli altiforni ed il gelo della cella di detenzione. Cercava di sopravvivere mangiando minuscole razioni di pane e zuppa di patate. Con le bucce delle patate che navigavano in un'acqua sporca, priva di nutrimento o sapore. A furia di patate e stenti ci aveva quasi rimesso le penne. Tornò a casa nel settembre del '45. «Pesava tanti chili quanto quell'anno» diceva sua madre, che nel vederlo sulla soglia di casa a distanza di tre anni quasi l'aveva schiaffeggiato, scansandone l'abbraccio. Era irriconoscibile. Il volto lungo e scavato. La pelle rattrappita. Gli zigomi in evidenza. Solo i capelli erano folti e neri. E svettavano su quel viso di ventunenne senza un filo di barba che tornava a casa dopo aver conosciuto il male.
Ma a sessant'anni di distanza il male era di nuovo dentro di lui.
Il tumore gli aveva bloccato l'esofago, impedendogli di alimentarsi o di bere normalmente. Era diventato come un bambino. Si cibava solo di biscotti sciolti nel caffellatte, di omogeneizzati, di pastine e carni frullate, che sembravano una sciacquatura rivomitata piuttosto che del cibo. «Come quella maledetta zuppa di patate», diceva il nonno sorridendo. «Kartoffeln. Kartoffelnsuppe. Quella zuppa che ci davano a Berlino, e che dovevi mangiare se volevi arrivare al giorno dopo. Allora credevo davvero di avere tutta la vita alle spalle, e non davanti. Avevo ventuno anni, e la guerra mi sembrava un'Apocalisse. Oggi che ne ho ottanta, e che davvero ho solo il passato di fronte agli occhi, mi sembra di non aver capito nulla. Perché la speranza è tautologica. E la vita è sempre vita. Anche se raggrinzisce su se stessa, come un fiore che non vuole saperne di tornare a sbocciare». Di lì a poco abbandonò la testa sul cuscino del letto dell'ospedale e chiuse gli occhi. Non li riaprì più.
A volte mi sembra di aver perso la memoria del passato. La grande forza per capire il presente. Per immaginare il futuro. Hartley diceva che il passato è una terra straniera, dove le cose accadono in un modo diverso da come sono accadute nel mondo reale. Come un pianeta con due lune. O un sistema solare privo di idrogeno. Per il nonno, il passato era semplicemente un piatto di zuppa di patate. Una Kartoffelnsuppe che sapeva di acqua, polvere, terra e solanina; e che gli intossicava lo stomaco e la gola, e che gli dava quelle allucinazioni che, solo per un istante, gli facevano vedere la speranza.
Nei carri piombati che, come serpenti, attraversavano l'Europa dell'Est.
Nei cieli, neri e cupi sopra una Berlino spettrale.
Nel suo letto d'ospedale. Letto di morte.
In quella Rosa di Gerico che era il suo passato.
Andrea Gratton