Lo scaffale di Tellus
Gianfranco Cordì. Se non la realtà. Gianni Vattimo contro il «nuovo realismo».
23 Marzo 2012
 

Da un attenta analisi di alcuni passaggi cruciali relativi alle speculazioni di Friedrich Niezsche e Martin Heidegger (ma non solo di essi), Gianni Vattimo, in questo Della realtà. Fini della filosofia (Garzanti, 2012), giunge alla constatazione della necessità di uno sbocco minimale e, potremmo anche dire, aleatorio del corso delle cose per come si sono andate sviluppando «in molteplici aspetti della cultura contemporanea». Proprio questo richiamo alla congiuntura storica e sociale relativa ai nostri anni è ripetuto più volte nel corso del libro: «in larga parte della cultura di oggi», si legge ad un certo punto, ad esempio, con riferimento a una certa «Koinè ermeneutica» che, sempre a giudizio dell’autore: «è divenuta egemonica» oggi. Questo sbocco minimale non è motivato solo da ragioni intrinseche alla costellazione della conoscenza e del sapere odierno. Vattimo fa anche riferimento a «un processo storico in cui noi stessi siamo coinvolti». Ma anche, dice: «per la (mia-nostra) filosofia, oggi… il male è proprio principalmente la metafisica stessa, l’identificazione dell’essere con il darsi come oggetto stabile». Ed ancora, in un altro luogo del libro: «ciò che getta una luce di sospetto sulla filosofia come tale e su ogni discorso che voglia riprenderne su piani e con metodi diversi le procedure di “fondazione”, di afferramento di strutture originarie, principi, evidenze prime e cogenti, è la smascherata connessione che tali procedure di fondazione intrattengono con il dominio e la violenza». Insomma, per Vattimo qualcosa come la realtà - dal punto di vista «della cultura contemporanea», lo ripetiamo – non c’è più. Egli, a questo proposito, cita come punto di riferimento essenziale del proprio percorso di pensiero l’affermazione di Nietzsche: «Non ci sono fatti, solo interpretazioni», a cui lo stesso filosofo di Röcken aveva fatto seguire la frase: «anche questa è un’interpretazione». Se dunque egemonica, oggi, è appunto questa lingua, tutto ciò - non di meno - comporta delle peculiari conseguenze: esse sono ravvisabili in alcuni «sbocchi nichilistici dell’ermeneutica». In definitiva, a fronte di una condizione di scissione fra soggetto e oggetto (quella che ha caratterizzato la metafisica classica), quella rispetto alla quale la realtà non era una interpretazione di qualcuno che vi si produceva, quella che era «dominio», «violenza» e «male», si assiste oggi all’emergere dell’affermazione di Heidegger, relativa naturalmente al nichilismo, nella quale il filosofo di «Essere e tempo» rinveniva una situazione all’interno di cui «alla fine dell’Essere come tale non ne è più nulla».

Rispetto a questa nuova caratteristica «epoca della storia» afferma ancora Vattimo: «il pensiero e l’esistenza del “dopo metafisica” si formeranno solo proseguendo la via “dissolutiva” indicata dal Ge-Stell: l’uomo e l’Essere devono perdere, definitivamente, non per provvisorio espediente, i tratti che li costituivano nella metafisica, quello di soggetto e quello di oggetto». In fondo, lo abbiamo detto, adesso il soggetto è coinvolto all’interno della realtà stessa. Ma non solo. «Possiamo solo riconoscere che vediamo le cose in base a certi pregiudizi, a certi interessi, e che se mai è possibile la verità, essa è il risultato di un accordo che non è necessitato da alcuna evidenza definitiva, ma solo dalla carità, dalla solidarietà, dal bisogno umano (troppo umano?), di vivere in accordo con gli altri». Ed infine: «insomma, siamo qui di fronte a uno storicismo radicale, per il quale è solo ciò che accade, e l’accadere è il risultato della risposta che gli esistenti danno ai messaggi che ricevono dal loro Geschick, dall’insieme di ciò che viene loro inviato e che a sua volta non è null’altro che l’esito di altri accadimenti dello stesso tipo». Davanti alla pluralità delle interpretazioni (ed al loro «conflitto»), davanti all’Essere visto adesso come «evento» e davanti al nichilismo della società contemporanea, Vattimo propone, dunque, la strada del «dialogo», dell’«accordo», della «negoziazione». I suoi filosofi di riferimento gli suggeriscono due soluzioni. «O non accadrà piuttosto, come Nietzsche ipotizza alla fine del lungo frammento sul nichilismo europeo (estate 1887), che in questo ambito siano destinati a trionfare piuttosto “i più moderati, quelli che non hanno bisogno di principi di fede estremi, quelli che non solo ammettono, ma anche mano una buona parte di caso e di assurdità?”». E, rispetto ad Heidegger: «se l’Essere parla, è nella forma del brusio, della polifonia, del sussurro e forse del “neutro” di cui Blanchot dice che dobbiamo aspettarci di avvertirlo». Insomma, occorre intraprendere una «presa di congedo» dalla realtà e installarsi nell’universo del bisbiglio, del ronzio, di quella «“parola essenziale” che Heidegger ha sempre cercato, anche nel suo accanito risalimento ai momenti aurorali della filosofia europea» e che è «forse molto più vicina alla chiacchiera quotidiana del mondo tardo-moderno che non al silenzio arcano della mistica e dell’esperienza del sacro».

Ci troviamo, finalmente, nel mondo dell’undeground, del sotterraneo piuttosto che dell’esposto e dell’evidente. Ed ecco perché la proposta di Vattimo, in un certo senso, appare minimale. Ma, va ricordato: siamo nel contesto dell’unione (della contaminazione) tra soggetto e oggetto piuttosto che della loro irrimediabile scissione. Ed inoltre proprio attraverso questa contaminazione e questo mormorio clandestino e nascosto ci troviamo a fare i conti con una proposta veramente «rivoluzionaria» - sempre a giudizio dello stesso Vattimo. «Ma il dialogo, la conversazione tra gli umani in cui, soltanto, accade l’Essere, esige l’ascolto del silenzio -, ossia la voce sommessa degli esclusi, degli confitti della storia. Tutt’altro che un ascolto passivo, come si vede. Un umanismo ermeneutico non può, alla fine, che essere un umanismo rivoluzionario». E lo stesso filosofo di Torino non esita, nella pagina finale di questo libro, a schierarsi proprio col «vecchio proletariato marxiano, non titolare metafisico della verità perché libero di vedere il mondo fuori dalle ideologie; ma portatore dell’essenza generica perché più di ogni altro individuo, gruppo, classe, è definito dal progetto, è tutto proiettato verso la trasformazione della propria condizione». Contaminazione, mormorio e rivoluzione: l’idea di Vattimo è che dal piccolo (dal debole) si possa fare molto. Naturalmente aprirsi al gioco delle interpretazioni vuole sempre dire, in qualche modo, situarsi dentro l’indeterminato, l’aleatorio, il fortuito. Ma questo, a giudizio di Vattimo, è un rischio comunque da considerare perché «la libertà - la progettualità umana in cui solo si annuncia l’Essere come tale - è sempre minacciata dalla metafisica (cioè dalla violenza del dominio)».

A fronte di questa considerazione, potremmo dire positiva del corso delle cose attuale, c’è anche chi - e questa è la parte polemica del libro di Vattimo - si oppone a questo «pensiero debole» o «postmoderno» che dir si voglia. Si tratta dei «nuovi realisti». Quelli per i quali occorre prima di tutto «pagare i debiti, lavorare di più e con salari più bassi, stringere la cinghia». Il «bisogno di realtà» è liquidato da Vattimo come «nevrotico». «Perché si rifiuta di prendere atto della esigenza “logica” (anch’essa, del resto, niente affatto “naturale”, ma solo una possibilità aperta al pensiero) di riconoscersi collocati dentro a quel gioco dell’interpretazione che si dichiara come il solo “reale”». L’essere schizoide del «Nuovo realismo» lo conduce, rispetto al coinvolgimento umano del debolismo, ad una condizione di errore. La «consumazione dell’oggettività in quanto effetto di dominio» ha portato dunque Vattimo certamente verso una maggiore libertà ma anche verso una congiuntura in cui «il mondo non è (più) che intreccio di”immagini del mondo”, il soggetto, il luogo geometrico di una molteplicità di ruoli mai pienamente unificabili, la storia stessa come una specie di costellazione delle molteplici (e non unificabili) ricostruzioni che la storiografia e la cronaca danno». In sostanza siamo nel pluriverso frammentato, caotico e spettacolare della globalizzazione. Il prezzo di una maggiore libertà viene qui pagato con la perdita di sicurezza. Ma se la sicurezza di un tempo era veramente schizoide, questa conquista del «progetto» e dell’«irrealismo» può dirsi veramente importante. A patto di ricordarsi che, dentro questo pluriverso, «la dissoluzione della realtà nell’interpretazione è anch’essa un (atto di) interpretazione». E come tale, non intacca affatto la realtà in quanto tale, ma solo il suo «simulacro».

 

Gianfranco Cordì


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