Entrare nel luogo del mito scoprendo la normalità e la semplicità di un genio del design italiano. Questo quello che si prova nel visitare lo studio dell’architetto Achille Castiglioni, padre di quel made in Italy che tutto il mondo ci invidia e sul quale viviamo tutt’oggi di luce riflessa. Lo “studio-museo” nel quale Achille Castiglioni disegnò, lavorò, progetto dalla metà degli anni ’60 fino alla sua scomparsa avvenuta nel 2002, si trova in un palazzo d’epoca milanese con affaccio diretto sul rivellino del castello sforzesco, e dal dicembre 2011 è diventato una vera e propria Fondazione. Il merito va alla famiglia dell’architetto, alla moglie Irma e ai tre figli, in particolare alla più piccola figlia, Giovanna Castiglioni, granitica (una laurea in geologia) e deliziosa custode molto alla mano di un luogo della memoria dove si svilupparono le idee del padre che diedero lustro sia alla città di Milano sia al disegno industriale italiano. «Il problema di noi eredi di questo pool di architetti famosi (da Franco Albini a Ettore Sottsass a Vico Magistretti, per citarne alcuni) è quello di dover gestire un importante patrimonio affettivo e culturale. Alla morte di mio padre abbiamo dovuto decidere cosa fare – racconta Giovanna – e dopo varie valutazioni, tra le quali anche quella di portare tutto all’estero dove le raccolte della memoria sono molto più apprezzate, nel 2006 abbiamo deciso di tramutare lo studio di Achille in un museo e, successivamente, di fare una Fondazione. In questo modo pensiamo che l’immane patrimonio creativo di Achille Castiglioni, oltre a non andare perso, possa essere divulgato e diventare un buon viatico per sostenere i giovani che oggi si affacciano al mondo competitivo del design con speranza ed entusiasmo. Infatti, uno dei progetti per il 2012 sarà quello di rieditare alcuni pezzi famosi di mio padre e trovare il modo di dare spazio al lavoro di un progettista emergente o ancora sconosciuto».
Una scelta coraggiosa, ma ancora più coraggiosa è stata Giovanna che, chiusa in un cassetto la laurea in geologia, è andata ad ascoltare tutti i lunedì le lezioni al Politecnico di Milano per imparare a “masticare” un po’ di design per ottenere più credito tra gli addetti ai lavori, perché avere un padre designer famoso che crea un divano (Hilly, Cassina, 1992) osservando le planimetrie delle montagne – esercitazioni di facoltà – non vuol dire averne ereditato la sacra arte. Camminando su uno scricchiolante parquet d’antan sotto a soffitti d’epoca illuminati dalla luce che entra da grandi finestre, Giovanna Castiglioni accompagna i visitatori nelle quattro stanze che compongono lo studio del papà e con lei si scopre non solo il genio di Achille Castiglioni, consacrato su tutte le riviste patinate del settore nonché in tutti gli show room delle aziende più famose e glamour come Flos, Alessi, Zanotta, ma anche un Achille privato.
«Lui» racconta la figlia «osservava tutto, era curioso, attento ai bisogni pratici di chi gli era vicino, non buttava via nessun oggetto e non dava nulla per scontato». E così si scopre che gli stampi dei budini in rame, chiesti in prestito alle amiche della moglie e mai restituiti, servirono per la progettazione di un cappello, o che un gioco a molla è stato uno spunto per un posacenere prodotto da Alessi che tutti hanno visto e usato almeno una volta nella vita, compreso l’Achille indomito fumatore. Oggetti scontati e di uso quotidiano come un cestino in legno per il cucito, un battipanni in midollino, un avvolgi-pellicola cinematografica si tramutarono magicamente in un comodino (“Comodo”, Interflex, 1988), in una ricerca materica o nella base per una lampada (“Lampadina”, Flos, 1972). Oppure che una figlia, Giovanna da bambina, sia stata un’inconsapevole musa ispiratrice per una piccola scrivania che si trasformava in una panchetta per poter chiacchierare col suo papà o in una scaletta per raggiungere gli scaffali dove alloggiavano i libri di scuola.
Ma per Achille Castiglioni la prima cosa era la praticità. «Per la lampada “Arco” prodotta da Flos nel 1962», prosegue Giovanna, «Pier Giacomo e Achille Castiglioni studiarono anche il sistema per trasportarla, dato che il basamento era in pesante marmo di Carrara, e per farlo fecero un foro nella base dove poter inserire una scopa con il manico di legno che ne facilitasse il trasporto. Ancora adesso quando negli show-room si deve spostare questa lampada culto, non sanno come fare dimenticandosi che avere una scopa di saggina nel magazzino può essere la soluzione!», conclude divertita.
Nello studio museo si trova di tutto: i progetti cartacei che aspettano uno scanner adatto per essere messi su file, i prototipi, i modelli, le centinaia di riviste che dedicarono articoli e immagini al genio del made in Italy, ma anche i ricordi di una vita e gli attestati di affetto e stima professionali testimoniati da lettere, disegni, fotografie fatte in un tempo in cui il computer non esisteva, tutti appuntati su una lunga parete rivestita di sughero. «Papà non ha mai usato il pc, non dava importanza a un rendering su schermo perché per lui l’oggetto andava realizzato con un modello o prototipo e quindi toccato, lavorato e soprattutto provato altrimenti l’idea diventava impraticabile. Quando seguo gli studenti del Politecnico cerco di far comprendere loro l’importanza della progettualità manuale, della ricerca e dell’osservazione. I giovani hanno tantissime idee e mezzi, sono creativi, ma forse ciò che manca è proprio la scoperta e soprattutto la cultura dell’oggetto: spesso pensano di trovare oggetti nuovi senza sapere che magari quel mobile, quella sedia sono stati progettati negli anni ’20» racconta Giovanna con passione, aggiungendo: «Oggi purtroppo c’è tantissima competizione e le aziende del mobile, dell’illuminotecnica, guardano al marketing e progettano di conseguenza. Gli anni in cui ha lavorato papà erano speciali e con lui in quel periodo hanno dominato altri architetti poi diventati vere icone del design (i già citati Albini, Sottsass e poi Mari, Magistretti, e poi Mangiarotti, De Lucchi, La Pietra…), ma erano bravi e promettenti studenti usciti dai Politecnici. Non si creava o progettava per diventare famosi, per avere la copertina sulla rivista patinata o in base alle regole del marketing, ma si ideava per facilitare la vita quotidiana in un’Italia che aveva voglia di bello e di benessere dopo anni di privazioni».
Ma dalle parole della figlia traspare anche un Castiglioni generoso, come quando offrì lavoro al ragazzo del bar, che continuava a portare in studio litri di caffè non richiesti solo per il piacere di entrare con rispettosa ammirazione nel genius loci dell’architetto milanese. Oppure quando progettò la lampada Parentesi (Flos, 1970) sviluppando un disegno del progettista Pio Manzù, prematuramente scomparso in un incidente, per poter contribuire con le royalties alla vedova, grazie anche alla vittoria di un Compasso d’Oro.
Visitare lo studio museo Achille Castiglioni è come fare un salto nel tempo e respirare quell’aria di creatività che, senza vera consapevolezza, stava proiettando Milano e il “pool di architetti” verso l’Olimpo del “made in Italy”, oltre a immaginare di essere interrotti dalla sua voce arrochita dal fumo provenire dalla stanza da dove progettava. «Sì, è proprio così, è come se qui si percepisse ancora la sua presenza», chiude Giovanna che svela un segreto: «Quando sono nervosa per via della tensione che accompagna un momento professionale importante, Achille si manifesta: scoppiano le lampadine! È successo quando dovevo tenere la mia prima lezione al Politecnico ed è successo pochi giorni fa quando mi hanno comunicato che saremmo diventati una fondazione». Niente paura: Achille aveva una predilezione per le fonti luminose (suo il famoso interruttore elettrico “Rompitratta” VLM 1968), in quale altro modo potrebbe manifestarsi?
www.achillecastiglioni.it
Simona Borgatti