«A chi ancora si stupisce se vede una stella che cade», tale, credo, è la miglior introduzione a chi s’appresta a centellinare la poetica di Italo Zingoni in quest'ultima fatica in ordine cronologico prefata da Margherita Enrico e con un Pensiero di Ernesta Galeoni, che ho letto, come mia abitudine, dopo aver steso la mia nota. La silloge o meglio taccuino di viaggio inizia dopo le note dell’Autore “intorno all’Arte” (da sottolineare soprattutto sul valore delle parole così come la frase corsivata tra apposite parentesi e sulla Poesia come gusto intenso ed infinito).
Tale suddetta annotazione rompe con la dicotomia tradizionale di stampo platonico di poesia e filosofia, innestandosi, il Nostro, in correnti innovative e dirompenti – si pensi alla possibilità del linguaggio heideggeriano come non mercificazione solo ricorrendo alla poesia – che non è più possibile trascurare o fingere di non vedere. In apparenza il dettato poetico di Zingoni sembra facile ma in tale sua chiarezza c’è abilmente digerita una tradizione nobile: dal Carducci di Idillio Maremmano sino alla commovente (e modernissima) Alla Stazione in una mattina d’autunno, nonché alle suggestive accentuazioni crepuscolari, estremamente elaborate. Il Nostro riesce ad ordire, a tessere un contrappunto tra amarezze e disincanti, disillusioni cui la vita, spesso, troppo spesso, costringe l’uomo ad interrogarsi sul significato pregnante dell’ek-sistere. Si nota in effetti il “per sé” (la coscienza) e l’“in sé”, l’opacità di un mondo sordo e muto, cieco alle nostre più intime esigenze. Comunque Zingoni non giunge mai alle punte estreme dell’esistenzialismo esasperato ed esasperante bensì ad un “volontarismo etico”: la sua volontà è protesa a mutare l’ordo rerum di un mondo come nostra costruzione sociale («Del senso e del non-senso spesso/ abusiamo la non facile illusione/ che ci dona l’estrema tentazione/ di spingere il pulsante, come al cesso» - ultima strofa di Sociologia o la dirompente Modus vivendi: «e non soccorre il senso della storia/ scindere di tutto il falso e il vero/ né credere al niente o all’assoluto…» sino alla chiosa amara). L’io lirico di Zingoni si fa più sommesso, cantando -o è un monologo ad alta voce?- le miserie del mondo con tutte le sfaccettature di una contemporaneità sdrucita e riprende a cantare il desiderio, l’amore con tinte crepuscolari ma con una nuova sensibilità: un gioco sapiente di chiaroscuri, di ombre tremule, di delicatezza, di rimpianti… L’Autore è sempre in viaggio come un nomade dello spirito con la sua solitudine interiore ma senza pre-concetti, pregiudizi… Si riflette e si espande con compostezza e dignità verso l’altro da sé, verso il milieu che lo circonda, lo avvolge, spesso lo stritola e per tal motivo non può esser indifferente, tutt’altro.
Egli compenetra, cerca lo sguardo dell’altro -da qui le sue mai sopite ragioni “rivoluzionarie”- e proprio lì non trova il “limite” ma la sua libertà. La poetica di Zingoni è composta da dettagli, da innumerevoli sfumature che le conferiscono potenza evocativa: la sua è prima riflessione filosofica, secondariamente estetica. È il suo modo di porsi nel mondo e di guardare sino in fondo all’abisso dell’anima e ne constata che stiamo perdendo il senso dell’umanità. Da qui il raccogliere con tenerezza le piccole/grandi cose che costellano la nostra esistenza. Il suo viaggio diventa anche nostro: è una catarsi, una palingenesi (cfr. Raccontami una storia) dopo il dirompente Stereotipo.
Lo dice chiaramente, Zingoni, che preferisce il dubbio alla certezza e aggiungerei, perché soffre la vita non solo epidermicamente. Da qui la tristezza e quella malinconia soffusa che danno colore e stile al suo ordito poetico per poi evidenziare il suo agognare un riscatto non solo fisico ma morale dell’integrità umana. Certo, caro Italo, la poesia può essere filosofia in pillole ma da “centellinare”.
Enrico Marco Cipollini
Italo Zingoni, Modernità
Onirica ed., Milano 2011, pagg. 96, € 12,00