David Foster Wallace
Il re pallido
Un romanzo incompiuto
Einaudi, 2011, pagg. XII - 716, € 21,00
Non è per niente semplice scrivere una recensione sull’ultimo libro di DFW uscito postumo, incompleto e in parte rimaneggiato per ammissione del suo stesso editor. Provo con difficoltà ad individuare uno o più motori di narrazione all’interno di un testo che si sviluppa su piani tra loro in apparenza distanti, quasi che l’autore ignori a bella posta la necessità per il lettore di avere davanti agli occhi una costruzione letteraria nella quale ad un argomento ne segua un altro che abbia per lo meno un nesso con il precedente. Nulla di tutto questo. DFW si prende la libertà di distogliere lo sguardo dal tema fino a quel momento trattato per gettarsi su un altro argomento che pur non avendo nulla a che vedere con quanto appena scritto a quello incredibilmente si ricollega.
Come in altri romanzi (vedi ad es.: Infinite Jest), l’autore narra per discontinuità: salti temporali da un capitolo all’altro, andate e ritorni dal discorso diretto a quello indiretto, opposizioni di punti di vista. Leggere DFW richiede grande impegno e una buona dose di pazienza per cucire fra loro diversi scampoli d’informazione che vengono disordinatamente forniti. A questa architettura narrativa, di per sé già assai complessa, si aggiungono vere e proprie irruzioni di capitoletti a sé stanti e di note a margine lunghe anche una pagina ma ogni frammento di questa nebulosa arriva al lettore sospinto da forze centripete che riconducono il frammento esiliato dal contesto all’interno dello stesso per conforme direzione di senso.
Ritornando al punto iniziale il romanzo ruota, a mio avviso, su due motori narrativi.
Il primo: in epoca postmoderna, nell’attuale organizzazione del lavoro impiegatizio e all’interno di una istituzione quale ad es. l’Agenzia delle Entrate, è possibile vivere immersi contemporaneamente nella noia e nel terrore? La risposta è affermativa non per indubbia suggestione letteraria ma per diretta esperienza dell’autore che di quella istituzione è stato dipendente.
Il secondo: l’omissione di attenzione come patologia della generazione alla quale Wallace appartiene.
Noia: …La parola compare all’improvviso nel 1766. Etimologia ignota. Il conte di March la usa in una lettera per definire un pari francese del regno. Le prime tre apparizioni di bore in inglese sono unite all’aggettivo “francese”. …I francesi avevano malaise, ennui.
…Ma niente in inglese prima di March, conte di.
Questo significa cinquecento anni buoni senza una parola per definirla, capito, sì? John Donne la chiamava lethargie, e per una volta sembra collegata con melanconia, saturninia, otrositas, tristitia… e attribuita alla milza, vedi per esempio la bile nera di Winchilsea oppure ovviamente Burton. Il quacchero Green nel 1750 la chiamava nebbia splenetica.
…Ed eccola ora erompere all’improvviso. La noia. Nome e verbo, participio e aggettivo al gran completo. Origine sconosciuta, davvero.
…A sentire i filologi, bore era un neologismo, e guarda caso coincide proprio con la nascita dell’industria, sì? Dell’uomo massa, della turbina automatizzata.
Quando l’esperienza di cui hai un assaggio a misura d’uomo diventa possibile, la parola si inventa da sola. Il termine. (Da Il Re Pallido, pagg. 497-98-99).
Il termine è dunque il punto di arrivo di un percorso del senso. Da lì in avanti l’evento si traduce in verbo e si compie. Se la parola si coniuga con l’esperienza, vale a dire, se ne hai un assaggio, la parola si forma da sola.
Esperienza di DFW: accetta di rispondere ad un annuncio di lavoro dell’Agenzia delle Entrate, negli States per pagare le tasse universitarie e pure gli arretrati che consistono in una discreta quantità di quattrini.
Quell’esperienza lo conduce a scrivere il libro Il Re Pallido.
I soggetti investiti da noia e terrore sono nell’ordine, lui stesso, coloro che come lui accettano di farsi reclutare dall’agenzia, i livelli medi - in fabbrica verrebbero definiti quadri intermedi -, gli alti dirigenti. Di quando in quando gli operatori dell’agenzia, in modo particolare quelli addetti alle mansioni più ripetitive, assistono al verificarsi di strani fenomeni, quali ad esempio, la visita di fantasmi o il sorgere nella loro mente di vere e proprie allucinazioni al pari di chi si trovi solo nel deserto e abbia esaurito la propria scorta d’acqua.
L’autore usa legittimamente il termine “reclutare”. Da come egli ne parla, da come si verifica l’impatto con l’Agenzia, non si può non trovare una correlazione con il sistema di reclutamento che si attua nell’esercito. Essere assunti dall’Agenzia equivale ad essere militarizzati. Il compito degli esaminatori ai diversi livelli si assimila a quello delle forze armate. Cambiano solo le destinazioni ma il sugo, come per la chiamata alle armi, sta nel vegliare, difendere o aggredire per tutelare l’integrità della Patria.
L’errato convincimento dei nuovi reclutati è quello di credere di entrare a far parte di un ambiente blindato dentro il quale il minimo che possa accadere è di soffrire progressivamente di una forma di claustrofobia: nel quarto d’ora di pausa concesso, Lane Dean, un esattore giovane, vorrebbe correre per lo spiazzo davanti all’Agenzia urlando e spalancando le braccia. In un’altra occasione Jean Dean …immagina di correre durante la pausa agitando le braccia, urlando cose incomprensibili e tenendo in bocca dieci sigarette contemporaneamente come un flauto di Pan…(pag. 491).
I più anziani sanno che malgrado le apparenze non esistono confini dell’agenzia. La struttura spazia universalmente. Occorre tempo, diligenza e attenzione per cogliere questa dimensione allo stesso tempo misteriosa e terrificante concepita per rispondere alle esigenze dello STATO che mai come in queste organizzazioni esula da quelle del singolo individuo.
Tuttavia l’Agenzia non ha nulla di simbolico. È un corpo. Un centro operativo di assoluta priorità. È l’occhio gigantesco, vitreo, fisso di qualcuno che guarda. Questa definizione è simbolica ma l’Agenzia ha il potere di uscire da una dimensione astratta per prendere corpo in un soggetto qualsiasi del tutto conforme alla definizione simbolica che più sopra se ne è data. Che poi questo corpo sia un fantasma di quelli che circolano tra gli stanzoni ove operano gli esaminatori è un fatto secondario. Può trattarsi di persone in carne ed ossa con relativa funzione o di allucinazioni. Normalmente quando la figura appare ad un soggetto gli altri sembrano non accorgersi di nulla. O ne sono semplicemente disinteressati. Dunque l’operatore che vive l’esperienza non può dire se si sia trattato di una sua allucinazione o se, al contrario, abbia avuto un approccio con un personaggio reale.
Lane Dean aveva sul suo tavolo da lavoro la foto del figlio piccolo. Aiutava guardare la foto di tanto in tanto. Il senso del suo lavoro all’agenzia era tutto dentro quel faccino di bimbo. Le operazioni burocratiche legate all’esame delle denunce dei redditi erano di una insignificanza e di una pochezza inverosimili e tuttavia per smaltire quel lavoro non era possibile ricorrere al pilota automatico, occorreva metterci dentro il pensiero. Da qui la sensazione di vivere all’inferno.
…Quando (L. Dean) cominciò a vedere la faccia del bambino nella foto sciogliersi e allungarsi con una deformazione della mascella e invecchiare di anni in pochissimi secondi fino a cedere e staccarsi del teschio giallo e ghignante che c’era sotto, capì che si era mezzo addormentato e che stava sognando… (pag. 495).
…Hai avuto un piccolo assaggio, a quanto vedo.
Era un omaccione anziano con la faccia rugosa e i denti a staccionata. Non veniva da nessuno dei tavoli Tingle che Lane Dean avesse mai osservato dal suo. Aveva una lampada da fronte con una fascia di cotone marroncina come quelle di certi dentisti e un grosso pennarello nero nel taschino. Odorava di brillantina e di cibo. Teneva parte del sedere sul bordo della scrivania di Dean e si puliva l’unghia del pollice con una graffetta raddrizzata e parlava sottovoce.
Nessuno dei brulicanti nelle due file contigue gli faceva caso. Dean controllò la faccia nella foto per assicurarsi che non stesse ancora sognando.
…Aveva qualcosa di strano a un occhio; la pupilla era più grande e restava così facendo sembrare l’occhio fisso… (p. 496).
Nel libro non si parla mai o quasi mai di sesso. Non si capisce cosa facciano gli esaminatori nel loro “tempo libero”. Scarsa o irrisoria la relazione con mogli o compagne. Le relazione con i figli è invece oggetto di alcuni capitoletti a sé stanti dei quali ho parlato in precedenza. I padri guardano crescere i figli e sperimentano il terrore di vederli crescere come estranei o come mostri.
Il padre, un impiegato di medio/alto livello dell’Agenzia assiste impotente alla crescita del figlio che dai quattro ai dodici anni pratica esercizi di contorsione allo scopo di baciare ogni parte del suo corpo. Il ragazzino è coadiuvato nei suoi esercizi di stretching da una fisioterapista che ne loda le doti di contorsionista e che ha odore di finocchio.
Il padre non entra mai nella stanza del figlio. Rimane seduto fuori, a terra, contro la parete del corridoio, a gambe spalancate, la testa ripiegata su una spalla senza aver neppure la forza di portarsi le mani alla faccia in un gesto di disperazione. Svuotato, come quando, seduto al tavolo di lavoro, è impegnato nella disamina delle denunce dei redditi. Le scritture di alcuni dei denuncianti sembrano esplose, come la scrittura di un pazzo.
Il secondo motore di narrazione, una nebulosa solo in apparenza separata dalla precedente, ma che gravita all’interno del medesimo campo di tensione centrale ha a che vedere con l’attenzione, o per meglio dire, con l’omissione di attenzione. Queste sono, a mio avviso, le pagine più emotivamente coinvolgenti del libro. L’omissione di attenzione è, nella narrazione di DFW, una patologia generazionale. Il meno poetico è il più calzante muro divisorio fra genitori e figli. Figli, che come DFW, vivono una condizione di prolungata adolescenza, sbarellati, strafatti di tutte le sostanze tossiche possibili, studenti universitari mantenuti da padri che nei confronti dei figli hanno rinunciato a prefigurarsi qualsiasi ottimistica previsione o anche semplicemente una previsione.
L’autore volge il dito contro se stesso, accusandosi di aver causato, grazie alla sua omissione di attenzione, al suo comportamento di sbarellato modaiolo, la morte accidentale del padre. DFW descrive il fatto, di per sé, allo stesso tempo tragico e banale, senza nulla omettere.
Si è sotto le feste di Natale. L’autore e suo padre, come tante altre persone, si avviano verso la metropolitana carichi di pacchetti e pacchettini. All’interno della metropolitana vi è un caos indescrivibile. Gente che si accalca una sull’altra per raggiungere le vetture e conquistare un posto a sedere. Il padre allunga il passo e fende la folla con determinazione. Non così DFW che arranca svogliatamente dietro di lui. Inutili le sollecitazione del padre affinché il figlio si dia una mossa. L’uomo sale sul predellino del vagone. Le porte a soffietto si chiudono all’improvviso. DFW assiste alla scena di suo padre che cerca disperatamente di sottrarre il braccio alla fenditura delle porte che come una morsa gli si è serrata intorno. Il treno si mette in moto, prende velocità con l’uomo sul predellino che prova a liberarsi senza riuscirvi. DFW vede passare davanti a sé la persona che più ama al mondo e allontanarsi, tra le urla delle persone che in pedana assistono alla scena, allontanarsi da lui per sempre, fino all’incontro con una sporgenza in ferro all’ingresso della prima galleria.
Dopo la lettura di questo passaggio occorrerebbe tornare indietro e rileggere pagina per pagina perché molti degli avvenimenti e dei comportamenti che vi sono minuziosamente descritti sembrano un atto di espiazione. L’omissione di attenzione non è solo causa della morte accidentale del padre in realtà intensamente amato ma la perdita irreversibile di un’occasione di dialogo tra due persone attente nell’ascolto l’una dell’altra, con le quali scambiare su un piano di reciprocità gratitudine e doni.
L’occasione di poter liberarsi della disattenzione, l’occasione di amare e non solo di essere amato è perduta. Tra le molte nebulose intorno alle quali l’autore magistralmente ci ha fatto girare fino allo sfinimento vi è un buco nero di profondo silenzio dentro il quale tutto si arresta. Forse anche lui non ha saputo procedere oltre. Che possa riposare in pace.
Renata Adamo
David Foster Wallace (1962-2008) è considerato lo scrittore americano più innovativo delle ultime generazioni, capace di spaziare dal “romanzo monstre” (Infinite Jest) al saggio (Considera l’aragosta) al racconto (La ragazza dai capelli strani, Oblio) con un’inventiva e una forza stilistica impareggiabili. Il Re pallido, curato con rigore e certosina pazienza dall’editor storico e amico personale di Wallace, Michael Pietsch, non è una semplice raccolta di frammenti narrativi, è un vero e proprio romanzo, incompiuto, ma del quale sono ben visibili il disegno e l’architettura.