Simone Pini definisce il caso “paradossale e surreale” e punta il dito sul cattivo lavoro realizzato dal Dipartimento Tecnico Investigativo di Bayamo
“Vorrei sapere perché ci sono poliziotti in questo paese che possono inventare un crimine come questo, coinvolgendo tante persone e persino stranieri che non si trovavano a Cuba. Ho denunciato il fatto anche al Consiglio di Stato, ma nessuno mi ha dato ascolto”
Simone Pini, uno dei tre italiani incarcerati per la morte della giovane cubana di 12 anni a Bayamo, ha accusato per scritto le autorità cubane di aver “inventato” le circostanze del crimine per il quale si trova prigioniero nelle carceri cubane da oltre un anno, senza che sia stato celebrato ancora il giudizio. Fino a questo momento, si sa soltanto che la giovane vittima, trovata sepolta nelle vicinanze di Bayamo, è morta per effetto di droghe somministrate nel corso di una festa, il 14 maggio 2010. Pini è accusato di aver guidato l’auto con cui sarebbe stato trasportato il corpo della vittima per seppellirlo alla periferia di Bayamo. Simone Pini scrive nella sua lunga testimonianza: «Le autorità cubane hanno commesso e continuano a commettere contro di me numerose ingiustizie, basandosi su storie inventate, prive di fondamento e di prove». Il prigioniero italiano dice che sta vivendo «una storia paradossale e surreale, per colpa del cattivo lavoro compiuto dal Dipartimento Tecnico Investigativo di Bayamo».
Pini, che si dichiara militante comunista, nega qualunque rapporto con i fatti di Bayamo e afferma che alla data del crimine si trovava in Italia, insieme alla famiglia. Dopo il 2003 ha passato un po’ di tempo sull’Isola, si è sposato con una cubana nel 2004 e da lei ha avuto un figlio. È stato arrestato il 30 giugno 2010, a Bayamo, oltre un mese dopo i fatti e in un momento in cui nella zona era in corso un’intensa operazione di polizia. Pini sostiene di essere stato «vittima di una macchinazione e di una vera e propria costruzione di prove per accusarlo di un delitto da lui non commesso, perché la polizia cerca di chiudere un caso che non sa come risolvere».
Pini insiste a dire che è arrivato a Cuba il 25 maggio, dieci giorni dopo il crimine del quale è accusato, e porta prove concrete a suo favore: il biglietto emesso dalla Cubana de Aviación, il timbro d’ingresso all’aeroporto cubano e alcune ricevute di visite mediche e scontrini di acquisti fatti in Italia in quel periodo.
Pini afferma di essere stato vittima di pressioni, maltrattamenti e abusi durante gli interrogatori, perché confessasse contro la sua volontà che aveva preso parte alla festa del 14 maggio, durante la quale morì l’adolescente. «Volevano farmi ammettere che ero entrato a Cuba con documentazione contraffatta, avevo vissuto da clandestino, avevo preso parte al crimine, subito dopo ero uscito dal paese ed ero rientrato legalmente il 25 maggio», rivela Pini nella testimonianza scritta dal carcere del Combinado del Este. L’italiano aggiunge che le autorità cubane hanno asserito di aver richiesto un’indagine all’Interpol sulla sua persona e che questo organismo internazionale avrebbe assicurato che lui il 14 maggio non si trovava in Italia.
Pini denuncia gravi irregolarità da parte delle autorità cubane, come averlo indotto a firmare documenti e dichiarazioni false. Parla di manipolazione psicologica, violenza fisica, promesse di libertà nel caso in cui avesse confermato certi elementi contenuti nel verbale.
«Era tutto programmato per trovare un colpevole. Tutto scritto da loro per incastrarmi», afferma Pini. «La polizia voleva che ammettessi di aver guidato l’auto con la quale sarebbe stato trasportato il corpo verso la zona di sepoltura», precisa.
Le autorità hanno detto a Pini che un gruppo di dieci persone lo accusava di aver preso parte al crimine. Tra queste persone c’erano l’italiano Angelo Malavasi e il proprietario della casa dove si sarebbero svolti i fatti, Luis Carlos. Pini si vedeva accusare da persone conosciute e da altre che non aveva mai visto in vita sua, ma che ugualmente gli imputavano la responsabilità di numerosi delitti.
«Non ho mai partecipato a certe attività. Le autorità cubane mi hanno fatto segno di continue minacce, violenza psicologica, terrore e menzogne. Ero indifeso di fronte a tante accuse ignobili e false, senza avere nessuna possibilità di controbattere».
In un’altra parte del suo racconto Pini scrive che alcuni giorni dopo le persone conosciute che l’avevano denunciato, avevano ammesso di essere state intimorite e minacciate dalla polizia. L’italiano Malavasi lo aveva fatto perché in cambio gli avevano promesso la libertà e Luis Carlos perché avevano minacciato di incarcerare sua moglie. Secondo Pini, Luis Carlos, dalla cella nel centro di detenzione di Bayamo confessò di aver mentito. «Una mattina abbiamo sentito delle grida. Era Luis Carlos. Ho compreso a stento quel che gridava. Diceva che tutta questa storia era falsa e che lui non sapeva niente di ciò che era accaduto», scrive Pini.
Il prigioniero afferma di aver scritto lettere sia a Fidel che a Raúl Castro per denunciare la sua situazione, visto che è prigioniero da oltre un anno, non è ancora stato celebrato il giudizio e non dispone di mezzi economici per pagarsi un avvocato. Afferma che la polizia dopo l’arresto gli avrebbe «tolto 3.100 euro in contanti, 540 CUC (pesos convertibili), 250 pesos cubani, una macchina fotografica, occhiali, magliette e orologi portati dall’Italia».
La testimonianza di Simone Pini è stata diffusa da Yoani Sánchez che sta cercando di sensibilizzare l’opinione pubblica perché il caso venga trattato secondo le regole giuridiche accettate da uno stato di diritto.
Gordiano Lupi