Cara Rina
ho ricevuto gli abiti che mi mandasti. Non mi piacquero niente affatto. Come mai vuoi che io possa mettere simili abiti? Non lo sai che sono vecchia e che certe cose non mi stanno più bene? Dunque per prima cosa vorrei vedere il papà e poi che mi decideste ad andare via di qui, perché non mi sento amata e mi pare che anche nel caso che dovessi morire, morirei sempre meglio vicino a voi. Non oso domandarvi di papà, perché certo temo lo disturberei troppo e non mi vedrebbe volentieri con i miei occhi spalancati e fissi, che son buona da far niente, peggio di quando ero a casa. Una cosa fissa mi sta sempre in mente scappare e poi scappare. Aiutami tu, tutti e vi benedirò fino all’ultima ora. Mi amate ancora spero di sì. Io vi amo malgrado dei vostri piccoli difetti e mi sembra di ritornare in questo momento una cara mammina.
Ernesta Faccio
La lettera di Ernesta Cottino Faccio, madre di Rina, in arte Sibilla Aleramo, è senza data e seguita da una nota dei sanitari: «Per la completa volubilità la signora Ernesta descrive stamani brutti gli abiti che ieri le parevano belli».
«Dalle lettere di Ernesta Cottino Faccio emergono disagio e sofferenza. Il rifiuto iniziale nei confronti del ricovero e il successivo adattamento all’ambiente di cui parla ripetutamente sembra più il risultato dell’avvenuta manicomializzazione che di un ritrovato “equilibrio”. Spingersi oltre non è facile». (Sebastiano Franco Veroli).
[Estratto da: Sebastiano Franco Veroli, Donne in manicomio. Le ricoverate a S. Croce nel decennio 1890-1900 – “Il caso di Ernesta Cottino Faccio”, Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea “M. Morbiducci”, Macerata 1998
Scelta dei testi di Patrizia Garofalo ed Elisabetta Andreoli
Fotografia di Elisabetta Andreoli]